Economia

Senza l'ossigeno Ue, recessione e poi fallimento

Da due mesi crescita negativa. Uscendo dall'euro ci vorrebbero dieci anni per far ripartire l'economia

Senza l'ossigeno Ue, recessione e poi fallimento

Da anni, la Grecia è un dead walking , un morto che cammina grazie all'ossigeno, con incorporato il veleno dell'austerity, somministrato dalla Troika Ue-Bce-Fmi. Sono prestiti per un totale di 245 miliardi di euro a tenere ancora in piedi Atene, ovvero i due terzi di un debito complessivo pari a 320 miliardi, il 170% del Pil ellenico. Senza questi aiuti, il Paese sarebbe già arrivato al capolinea della bancarotta sovrana. E se i negoziati tra il governo di Alexis Tsipras e i suoi creditori dovessero fallire, nonostante la ventata di ottimismo diffusa ieri sera, il rischio è che la spina, prima o poi, venga staccata. Aprendo la strada a un prevedibile quanto doloroso default e a un'altrettanto scontata uscita della Grecia dal club dell'euro.

Del resto, il tempo ormai stringe: Atene, inoltre, è in recessione da due mesi e senza un'intesa entro fine febbraio vengono a cadere le condizioni su cui si basa l'assistenza finanziaria. In parole povere, già il primo marzo l'Fmi potrebbe pretendere il rimborso dei 4,6 miliardi di Sirtaki-bond in scadenza. Un primo, potenziale guaio, forse risolvibile con i pochi spiccioli che secondo il ministro delle Finanze, Yanis Varoufakis, restano ancora in cassa. Ma il colpo letale potrebbe essere sferrato dalla Bce: chiudere i rubinetti della liquidità straordinaria finora garantita alle banche, significa condannarle a morte. Con il risultato di creare il panico tra la popolazione: inevitabili sarebbero gli assalti ai Bancomat e agli sportelli delle filiali nel tentativo di recuperare quanto più contante possibile. Un fuggi-fuggi collettivo per mettere in salvo i risparmi in vista del probabile crac. O per proteggerli da misure d'emergenza sulla falsariga di quelle adottate, per esempio, dall'Argentina nel 2001 con il cosiddetto corralito , un cappio che impediva il ritiro dei depositi, lasciati dissanguare dalla svalutazione-monstre del peso. In assenza di un soccorso extra-europeo (Russia, Cina, o Usa) su cui gli esperti restano scettici, alla Grecia non resterebbe che alzare bandiera bianca, dichiarando il default. Anche se forse solo parziale: alcuni creditori verrebbero pagati, altri no. Probabile che Atene scelga in prima battuta di far fronte agli obblighi verso l'Fmi, allo scopo di non tagliare una possibile fonte di aiuti. Ma la bancarotta avrebbe una doppia conseguenza: non solo l'uscita dall'euro, ma anche dall'Unione europea. L'articolo 50 della Carta di Lisbona, infatti, fa esplicito riferimento alla possibilità di abbandonare l'Ue, senza tuttavia contemplare la possibilità di sganciarsi dall'unione monetaria. Insomma: un doppio salto nel vuoto.

In ogni caso, il ritorno alla dracma non libererebbe Atene dall'obbligo di ripagare in euro i creditori: per ragioni fiscali il debito ellenico è sottoposto alla legislazione inglese. Così, se queste obbligazioni rimanessero denominate in euro e se la nuova dracma subisse una svalutazione del 50%, il debito pubblico greco - in base a una stima di Commerzbank - decollerebbe dall'attuale 170 al 230% del Pil. Già questa stima dovrebbe far capire quanto sia difficile immaginare per la Grecia un happy end come quello vissuto dall'Islanda, che dal 2010 ha ripreso a crescere dopo aver dichiarato fallimento appena due anni prima.

Troppi, del resto, i soldi in ballo. Paesi come Italia, Francia e Germania devono «rientrare» di quasi 200 miliardi: la vendetta potrebbe quindi essere consumata attraverso ritorsioni di tipo commerciale. Uscendo dall'Unione europea, il Paese sarebbe comunque esposto a dazi, soggetto a quote di esportazione e importazioni e alle varie forme di protezionismo che regolano il commercio globale. E, con una moneta così indebolita, l'effetto benefico legato a un aumento dell'export verrebbe annullato dall'iper-inflazione generata dai più alti costi da sostenere per gli approvvigionamenti sui mercati internazionali delle materie prime necessarie. L'alternativa? Dedicare risorse alla produzione interna. Ma è un processo lungo: serve almeno un decennio prima di far ripartire l'economia. E tutto questo tempo, la Grecia non ce l'ha.

Kronos finisce sempre per mangiare i propri figli.

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