Lettere d'amore

Lo struggimento colto di Carducci: "Voglio tu sia come la mia poesia"

Lo scrittore confessa alla "sua" Carolina sogni, gelosia e (anche) rancori

Lo struggimento colto di Carducci: "Voglio tu sia come la mia poesia"

A Carolina Cristofori

Bologna, 10 dicembre 1872, ore 12

Dolce amor mio, La tua desiderata e baciata e ribaciata lettera in data del 7 non partì di Milano che l'8. Vuoi sapere che cosa facessi la sera del 7 alle ore 8 e mezza mentre tu eri indubbiamente in letto leggendo l' Eneide ? Amor mio, lo dirò non senza vergogna: quella sera e la appresso la passai bevendo per divertire la tetra malinconia che mi rattristava tutto e mi faceva cattivo. Io non mi lamento de' tuoi silenzi o de' tuoi ritardi: credo che tu, e per le occupazioni di casa necessarie e per le relazioni di società pur necessarie nelle attinenze e condizioni tue, abbia più d'una ragione a quei silenzi e a quei ritardi. Ma ciò non di meno sto male, quando ho aspettato in vano un tuo dolce foglio. E la sera, e la notte specialmente (oh potessi uccidere il crepuscolo e le tenebre!), sto male, male, male: mille e mille orribili pensieri, freddi, avvelenati, striscianti, si contorcono in tutte le mie fibre, come serpenti che rizzino il capo e guizzando mordano da ogni parte. E la gelosia, la gelosia del presente e del passato, mi avvolge tutto e mi stringe e mi soffoca, come un polipo immenso, informe, senza capo, senza branche, senza occhi; e in quella stretta feroce avrei bisogno d'urlare, di sfogarmi, di far non so che. \

Ci furono anni nei quali lo sguardo più promettitore di donna non mi avrebbe distratto un attimo dal seguire lo splendore delle mie idee. E ora per te sento, che, se non mi facessi forza, commetterei la viltà di dimenticare tutto, di sacrificarti tutto. Imàginati dunque che questi pensieri mi vanno sempre per l'animo, che la imagine tua mi perséguita sempre, quella imagine al cui piede sono tentato di gittar tutto, imàginati il furore della mia passione; e vedi poi che cosa deve succedere in me quando mi si svegliano rabbiosi in cuore quei serpenti vespertini e notturni dei sospetti gelosi. \ Lina, mi riconfortano, mi consolano, le ultime soavissime e divine affermazioni del tuo foglio. Io ti credo, amor mio: io sono beato del crederti: non posso vivere che di cotesta fede. Ma, se un giorno tutto ciò fosse men vero (che non può essere), se tu mancassi mai all'amor mio; Lina, tu spezzeresti un gran cuore, un cuore che ti ama come nessuno certo ti ha amato mai. Lina, io voglio che tu sia come la mia poesia: che pochi t'intendano e ti gustino. Io sono fieramente superbo in certe cose. E ora abbracciami; ché lo merito, perché ti amo troppo. E distruggi questi fogli, che non capitino sotto gli occhi di nessuno. E parliamo d'altro.

Sai che la mia corsa a Milano fu cagione a parecchie idee curiose e a qualche fatto serio? Non vedendomi più così d'improvviso, né all'università, né a' luoghi soliti, crederono ch'io fossi andato a Roma \ e che mi avessero arrestato: gli studenti erano furiosi. Questa la parte curiosa. Ma v'è di peggio. La consorteria letterata ministeriale voleva a ogni modo proporre al ministro come incaricato per l'insegnamento delle lingue e letterature comparate un certo D'Ovidio, ragazzaccio manzoniano \. Ma sabato, sabato, mentre io mi struggevo a canto a te, mia tentatrice divina, si raccolse di nuovo la facoltà; e, me assente, agli uomini ragionevoli mancò il coraggio delle proprie opinioni, che manca troppo spesso agl'italiani massime letterati, e il D'Ovidio non fu effettivamente proposto, ma giù di lì. Quando fui tornato, i due o tre ragionevoli cominciarono a rimproverarmi – Se c'eri tu! – Ma dov'eri? – e vai discorrendo.

Intanto, se un asino presuntuoso di ragazzo manzoniano senza testa senza cuore e senza virilità sarà chiamato a insegnare lettere comparate nell'università di Bologna, la causa ne sarai tu: tutta tua la colpa; chiedine, chiedine perdono alla memoria di Foscolo e di Leopardi.

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