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1948: l'Italia scelse la libertà E al Pci non restò che perdere

Il 18 aprile il trionfo Dc spiazzò un Paese diviso in due Quel mondo spietato ma leale oggi è molliccio e confuso

1948: l'Italia scelse la libertà E al Pci non restò che perdere

In famiglia, nella primavera del 1948, vivevamo intorno al vero totem di casa: un apparecchio radio a valvole in radica di noce con cui avevamo seguito le ultime sulla guerra, il colonnello Stevens da Radio Londra e gli sceneggiati dai racconti di Allan Poe. Tirava un'aria da guerra civile latente e imminente. Sui muri campeggiavano, nel Lazio, slogan minacciosi e sgrammaticati: «Ha da venì, Baffone!». Baffone era Josep Stalin, imperatore del comunismo mondiale, atteso dalle masse e leader di un mondo che non conosceva scismi, ma soltanto soppressioni e sparizioni.

Non si sparava con le armi, ma le armi c'erano, nascoste ovunque e ben oliate. Gli adulti correvano in bicicletta urlando e distribuivano volantini. Oggi a Roma, sugli stessi selci di allora vedo uno sparuto gruppetto vicino a Largo Vidoni un tempo sede del ministero dell'Africa Italiana che inalbera uno striscione con la scritta No alla guerra!. Anche settanta anni fa si gridava no alla guerra, abbasso gli imperialisti, abbasso i comunisti. Uomini e donne in tonaca erano a quei tempi stranamente rissosi. Una mia vecchia zia mi voleva spiegare a tutti i costi in preda all'imbarazzo che i comunisti stupravano le fanciulle. La guerra era finita sui fronti ma non nella mente degli italiani che per prudenza già facevano incetta di scatolette di carne, carbone per la cucina e petrolio per i lumi. Ieri, mentre camminavo su Corso Vittorio la gente mi salutava con le espressioni che sono diventate normali oggi, e balbettanti: «Non si capisce niente, vero? Che succederà? Mamma mia che casino». Settanta anni fa gli americani avevano portato penicillina, caramelle col buco Life Savers con antibiotici. Gli italiani rimasti fascisti soffrivano, mugugnavano e deridevano l'incerta democrazia nascente. I comunisti e Stalin erano associati all'idea della rivoluzione, stavolta per via elettorale. Stalin in realtà non era felice all'idea che in Italia vincesse il Fronte dei comunisti e dei socialisti. Secondo la spartizione di Yalta l'Italia toccava all'Ovest e non si potevano fare pasticci senza conseguenze, come stava accadendo in Grecia dove Stalin non salvò i comunisti insorti. Il simbolo del Fronte delle sinistre era il volto barbuto di Giuseppe Garibaldi. A ponte Garibaldi avevano fatto marciare dei reduci garibaldini quasi centenari in camicia rossa. Era un mondo bellissimo forse proprio perché spaccato in due, o di qua o di là, o con Stalin o col Papa. I ragazzini col fazzoletto rosso dei Pionieri del Pci facevano a cazzotti con noi scout cattolici. Tutto era rozzo, ma tutto era chiaro, bianco o nero. O rosso. Poco tempo dopo Ivan Della Mea canterà con rimpianto rivoluzionario: «Vi ricordate del diciotto aprile, che avè votà democristiani, senza pensare all'indomani, senza pensare alla gioventù». I comunisti non riuscirono mai più a sperare di vincere le elezioni, neanche con Berlinguer.

Andavo alle elementari settanta anni fa e il mio compagno di banco, Alberto Limentani, mi dava a bere che di notte volava in Israele col suo caccia a combattere per Israele. Era un altro mondo, antico ma tosto e leale, chiaro e spietato, mentre oggi abbiamo di fronte un mondo piagnone, mollaccione e in cui idee e ideali cambiano colore e forma come le bolle di sapone. Allora il Fronte popolare era il nemico, la Democrazia Cristiana con lo scudone crociato rappresentava l'Occidente, la Chiesa e don Camillo contro Peppone. Era il 18 aprile e il blocco democratico stravinse contro tutte le previsioni. Sui manifesti, opere d'arte divertentissime, il trionfo della grafica, l'Unione Sovietica era un enorme orso che mangiava i bambini, mentre i democristiani erano sui manifesti dei parassiti schifosi e panciuti con enormi forchette.

Era un clima da crociata: l'America contro la Russia, il papa contro il demonio, lo stesso papa scheletrico e allampanato con gli occhialini tondi che era salito sulle macerie del bombardamento di Roma del 19 luglio del '43 «dispiegando le sue bianche ali» come canterà Francesco Guccini. Era anche il papa che aveva scomunicato i comunisti, un pogrom davanti a Dio, in una Roma alla prima prova di capitale repubblicana, una casbah di parrocchie, sezioni e cellule di partito, pedalata da agit-prop (agitatori propagandisti) che attaccavano manifesti subito coperti da manifesti avversari e giù, botte da orbi per tutti. Ce n'era uno di manifesto, bellissimo, in cui ruotando il volto di Garibaldi, simbolo delle sinistre, veniva fuori quello di Stalin.

Il cinese del baretto di via Piè di Marmo mi dice: «Ma adesso i grillini sono diventati filoamericani? Ma non erano per Putin? Ma è vero che Berlusconi vuole mediare fra Trump e Putin?». Non ci sono più le mezze stagioni, neanche mentali. È un day after, tutto sparito: a Piazza del Gesù non abita più la Dc e non c'è più il Pci alle Botteghe oscure. Né i repubblicani a piazza dei Caprettari, i liberali a via Frattina o i socialisti a via del Corso. Tutto morto ma cresce il tasso d'ansia: l'ansia di settanta anni fa era una frusta neuronale: paura dei comunisti, paura di un'altra guerra, anche se il piano Marshall ci avrebbe salvati. Il Fronte Popolare non vinse, malgrado le certezze della sinistra: tanto rumore, troppo rumore per nulla. Era finita un'epoca: quella delle raffiche del Gobbo del Quarticciolo che non aveva ancora vent'anni, mentre il bandito Salvatore Giuliano l'anno prima in Sicilia aveva aperto il fuoco sulla folla a Portella delle Ginestre dopo la vittoria delle sinistre nell'isola. Di qui altri timori di stragi e rappresaglie. Ma gli italiani votarono saggiamente, in massa, e vinse il partito dell'Occidente.

Il 4 marzo di quest'anno gli italiani hanno votato in preda a ripensamenti, acidità, incertezza fra rabbia e disperazione, e scoprono di avere in mano, per ora, un pugno di mosche.

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