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Accordo tra Libia e Italia. Haftar avvisa: non ci impegna

Il generale alla guida del governo di Tobruk è sostenuto dalla Russia e dall'Egitto

Accordo tra Libia e Italia. Haftar avvisa: non ci impegna

Stringere accordi sui migranti con un personaggio irrilevante come il premier libico Fayez al-Serraj non è solo inutile, ma anche potenzialmente dannoso. Per capirlo, e farlo capire al premier Paolo Gentiloni, non ci voleva la sfera di cristallo. Ora a rendere il tutto più evidente ci pensa il governo di Tobruk che, proprio ieri, ha dichiarato nulla e non vincolante l'intesa con l'Italia. Non esiste «alcun obbligo morale o materiale» legato a questo accordo - fa sapere il Parlamento basato nell'Est della Libia - perché il governo di unità e il suo primo ministro Serraj «non hanno alcuna giurisdizione».

Certo il governo di Tobruk non è propriamente la bocca della verità e non gode, di per sé, di un'autorità più rilevante di quella del rivale Serraj. A differenza di quest'ultimo ha però dietro a se la forza militare di un generale, Khalifa Haftar, dotato di un vero esercito e spalleggiato da Egitto e Russia. Insomma Tobruk, pur essendo anch'essa un'autorità ventriloqua, ha almeno il vantaggio di poter contare su sostegni assai più rilevanti di quelli di un Serraj costretto, dopo l'uscita di scena di Obama, a reggersi sulle stampelle fornitegli da Nazioni Unite, Europa e Italia. Stampelle che rischiano di traballare e dissolversi non appena l'amministrazione Trump avrà deciso quale politica seguire sullo scenario libico. Anche in questo campo pochi, dopo aver visto come son girate le cose alla Casa Bianca nelle ultime settimane, sembrano disposti a scommettere su Serraj.

Il primo a saperlo è Gentiloni che, non a caso, ha tentato di approfittare della recente telefonata con Trump, per strappare un sostegno preventivo alle politiche italiane nella ex-colonia. Un tentativo infrantosi sulla guardia di un interlocutore ben attento a non anticipare le proprie mosse. Non servono però analisi sopraffine per capire che Trump, caparbiamente ostile a qualsiasi patteggiamento con l'Islam integralista, ben difficilmente digerirà l'idea di appoggiare un premier sostenuto da quelle milizie di Misurata e anche di Tripoli (prima di tutto quella a cui spetta garantire la sicurezza nella capitale) tra cui emergono simpatie non solo jihadiste, ma anche qaidiste.

E non è difficile intuire che la recente offerta del presidente russo Vladimir Putin di mediare tra Tobruk e Serraj non sia tanto rivolta a tenere in piedi il governo fantoccio di Tripoli quanto a offrire alla Casa Bianca un altro territorio, analogo alla Siria, su cui definire politiche comuni. Politiche rivolte non solo a sconfiggere la minaccia dell'Isis, ma anche ad individuare un uomo forte a cui affidare il Paese.

Politiche che non potranno dunque ignorare quel generale Haftar a cui Mosca ha appena promesso una commessa d'armi del valore di due miliardi di dollari.

Armi e politiche che - in mancanza di un repentino cambio di rotta del governo Gentiloni - rischiano di diventare la tenaglia capace di stritolare gli interessi nazionali dell'Italia nella sua ex colonia.

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