Politica

Addio a Jake La Motta Suona l'ultimo gong per il «Toro scatenato»

Aveva 96 anni. Con Robert De Niro la sua storia ha conquistato Hollywood. E un Oscar

di Riccardo Signori

G iacobbe, quello della Bibbia, se ne andò dopo 147 anni. L'altro Giacobbe, quello della Bibbia dei pugni, gli è corso dietro ma non ce l'ha fatta: si è fermato a 96 anni. Tutt'altra storia. «Sembrava meraviglioso contare tutte le donne che riuscivo a stendere in un giorno e quanto liquore potevo tenermi in corpo». Ricordate così, in queste parole sue, Jake (nato Giacobbe) La Motta: gli sarebbe piaciuto. Lo ha fregato la complicazione di una polmonite. Era nato nel Bronx e ne fece il suo stemma nobiliare pugilistico: «il Toro del Bronx», «The Bronx Bull». Che poi fu un libro, un film rieditato in «Toro Scatenato» con Robert De Niro che prendeva pugni finti. Jake conobbe il sapore più acre del sangue e arena. I suoi pugni non erano nobili, magari quelli di Ray Sugar Robinson molto di più. Però sei battaglie fecero epica. Per Jake furono memorie indigeste come i pugni di Robinson. Tanto valeva scherzarci sopra. «Con Zucchero Robinson ho combattuto così tante volte da meravigliarmi di non essere diventato diabetico».

Jake era un tipo da film e da ring, passato dal ghetto alla mafia, dai pugni alle pupe, dal carcere al ring. Poi è diventato un simbolo della riscossa italo-americana. Maledettamente furbo nel circumnavigare le zone oscure della vita e nel ritrovare l'istinto di sopravvivenza che lo ha guidato sul quadrato. Nato da genitori italiani, il papà partito da Messina, la mamma con qualche ascendenza ebraica, divenne delinquentello, vai e vieni tra penitenziario e carcere finché la boxe non gli ha regalato la chance della vita. Il papà lo riempì di botte una volta per tutte. Poi gli mise in mano un uncino, e gli spiegò: «Prendilo figlio di puttana. Colpisci per primo e colpisci più forte». «L'unica cosa buona che mi ha insegnato mio padre», avrebbe ricordato La Motta.

Jake combatteva tra i pesi medi (14 anni di carriera, 106 incontri), non ne spedì tantissimi al tappeto per il conto finale, ma le sue sfide erano battaglie senza pietà. Una macchina da pugni, fisico da un metro e 72 tendente all'ingrasso, ma quando protendeva la testa contro l'avversario sembrava un carro armato da 100 tonnellate. Rocky Graziano lo chiamava «testa di pietra». Rocky e Jake erano amici e mai si incontrarono sul ring. La mafia americana dominata da Frankie Carbo, alias mister Grey, li teneva nel grembo. La Motta si fece battere per 100mila dollari e la promessa di una chance mondiale da Billy Fox, un perticone nero, poi finito in manicomio. Raccontò: «Con i suoi colpi non avrebbe ammaccato neppure un barattolo di yogurt». Andò sotto inchiesta, ma se la cavò. Anni dopo ammise la combine. Conquistò il mondiale (16 giugno 1949) davanti a Marcel Cerdan, splendida macchina da pugni francese. La rivincita non si fece mai perché l'aereo di Marcel, l'amante di Edith Piaf, finì contro un picco delle Azzorre. Il clan di Carbo mise l'occhio su Tiberio Mitri, giovane, piacente, di bello stile e sposato con Fulvia Franco, bellezza a caccia di gloria hollywoodiana. La Motta sapeva qual era la sua parte, ma Mitri non fece la sua: restò ipnotizzato e Jake dovette vincere ai punti.

Tutto questo spiega che La Motta è stato buon pugile, ma un uomo che sapeva capire il senso della vita: della sua vita. Eppure c'erano momenti nei quali l'onore contava più del soldo. Le battaglie con Robinson furono spossanti ed epiche. Una la vinse e lo spinse fra gli immortali. L'ultima, quando perse il titolo, nella notte di San Valentino 1951, fu un massacro. E, ancora oggi, par di rivedere Jake, dolorante e pesto, aggrappato alla corda del ring che ringhia: «Avanti Sugar, buttami giù se ci riesci». In quell'attimo Jake disse all'arbitro che lo avrebbe ucciso, se avesse fermato il match.

La Motta non si è fatto mancare niente: gli sono passate per il letto sei mogli e chissà quante bionde. Finì anche nel giro della prostituzione. Ha sbarcato altrettanti figli. Ha chiuso sul ring nel 1954. Più di una volta ha dovuto ricominciare da combattente della vita. Cinema e televisione non lo dimenticarono mai. La vecchiaia è stata una corsa tra le nuvole dei ricordi, sigaro eternamente fra le labbra, elegante nel vestire. Eppoi diceva: «Sono Jake La Motta».

Un simbolo, bastava la parola.

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