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Vediamo il caso. Per anni un uomo il cui nome comincia per B è trascinato per i piedi da cavalli alle redini di giustizieri con toga e capelli (rossi) al vento. Intorno, ali di gente irosa plaude, mossa da giornaloni e televisioni di tutto il mondo. Per che cosa? È ufficiale. Ha peccato contro il sesto comandamento, che ordina di «non commettere atti impuri». Il peccato che tutti i preti sono stanchi di assolvere in tutti i confessionali dell'universo.

Certo, le trombe per la convocazione del linciaggio dicevano altro: violenza a pubblici (...)

(...) ufficiali, prostituzione minorile. Alla fine, sono arrivati i giudici. L'uomo è dichiarato innocente. La corte suprema si pronuncia inequivocabilmente: non c'è materia penale. Il danno fatto è stato enorme. Si è cercato di caricare sulla groppa di un avversario politico un delitto che non esisteva. Allo scopo si è invasa l'intimità di molte persone. Del nostro presidente del Consiglio si è esposta la biancheria - e quello è il meno: quella chi ce l'ha, pulita? - ma soprattutto si è preteso di spremere il succo di una vita, l'essenza di una persona da mutande rubate con destrezza.

A questo punto il segretario generale della Conferenza episcopale italiana Nunzio Galantino - a sostegno del direttore di Avvenire che sul tema si era speso con l'editoriale - ha dichiarato: «La legge arriva fino a un certo punto, il dato morale è altro». Come si fa a dare un giudizio morale usando materiale rubato? Diventa ricettazione a scopo di predica, e si trascura il sacco vandalico perpetrato grazie al grimaldello di un presunto reato che non c'era. Galantino è certo un grande amico di Papa Francesco. Da Francesco abbiamo imparato ben altra lezione.

Ma come si fa ad agire così, cari vescovi? Niente misericordia, e molto acido? Capiamo che ci sono dei conti da regolare tra di voi, e i vostri nuovi capi intendono così umiliare chi (un nome a caso, il cardinale Ruini) ha difeso in passato il centrodestra e ha ringraziato il suo leader per avere difeso con atti di governo, annullati dal Quirinale, valori forti come la difesa della vita (il caso Eluana) e prima ancora con scelte chiare sui referendum (fecondazione artificiale). Ma con che cuore il pastore del gregge si mette a bastonare in pubblico una pecora peccatrice, dopo che sta cominciando di nuovo a respirare, appena sfilata dai denti di chi, infilandolo con lo spiedo di accuse false, ne voleva fare un boccone? Un vescovo sa se comportandosi così ha violato qualche comandamento, io non mi permetto. Di certo è vista selettiva, daltonismo morale, vedere il peccato privato di un uomo ed essere ciechi dinanzi a quello di un apparato che ha violato ogni regola di decenza. Il tutto per sistemare pendenze di rancori personali, con ciò non esitando a proporre al mondo l'Italia come uno straccio sporco, compiacendosi di rendere pubblico un voyeurismo dissipatore di risorse pubbliche.

Quello di monsignor Galantino non è dare un giudizio morale, ma fare politica usando la propria posizione ecclesiastica per assecondare il proprio pregiudizio di tifoso. Ci sta: se lo fa un direttore di quotidiano, cattolico o protestante o ateo che sia, fa parte del gioco. Ma se lo fa un vescovo, pastore e padre di tutti, per di più quando parla a nome dell'episcopato, è una ferita. Mi pare che sia san Paolo a chiedere: «E voi padri non esasperate i vostri figli».

Se un vescovo entra in politica a piedi uniti, magari sulle caviglie di qualcuno, il modo per portargli rispetto, anche da discepolo, è segnalargli che forse ha sbagliato caviglia.

È il nostro caso.

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