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Altro che diritti umani: questa è la Corte di Erode

Altro che diritti umani: questa è la Corte di Erode

La chiamano Corte dei Diritti Umani. Farebbero meglio a ribattezzarla Corte di Erode. O di Ponzio Pilato. Perché questo è il comportamento dei giudici di Strasburgo davanti alla tragedia del bambino Alfie. Certo a condannarlo a morte non sono stati loro. Sono stati i medici dell'Alder Hey Children's Hospital di Liverpool e i parrucconi dell'Alta Corte, della Corte d'Appello e della Corte Suprema, tre tribunali di diverso ordine britannico concordi nel sentenziare, con imperscrutabile certezza neo-positivista, la necessità di negare ogni cura a quel bimbo. La necessità di farlo crepare per non contraddire una medicina incapace di curarlo. Ma i parrucconi inglesi possiamo capirli. Sono i magistrati di una nazione che trasferendo l'autorità religiosa alla monarchia riesce a far coincidere etica statale ed etica religiosa. Pur emettendo un giudizio non solo incomprensibile, ma - ai nostri occhi - anche disgustoso e osceno servono la tradizione e i principi del loro Paese. La responsabilità della Corte fondata nel 1959 sulla base della Dichiarazioni Europea sui Diritti Umani, è però assai più esecrabile. A differenza dei colleghi britannici i 47 giudici di Strasburgo appartengono ad un'istituzione chiamata a decidere non nel nome della scienza e non solo nel nome del Diritto, ma anche, e soprattutto, nel nome dell'Essere Umano. Spetta a quei 47 giudici esprimersi su normative o sentenze che - seppur in regola con la giurisdizione dei singoli Stati - rischiano di ledere i principi della Dichiarazione Europea sui Diritti dell'Uomo. Ma da sempre questa Corte sovranazionale, scelta da pochi e non votata da nessuno, esibisce la stessa meschina, burocratica evanescenza di tante altre istituzioni europee. Nel 2012 non esitò a condannare un'Italia accusata di respingere i barconi in partenza dalla Libia. Ma sorvolò su come gli esecrati respingimenti avessero, in realtà azzerato le morti nel Mediterraneo. Oggi sceglie il silenzio dell'ignavia davanti alla condanna di un bimbo di 23 mesi. Una condanna decretata contro la volontà di una famiglia pronta a tutto pur di concedere una speranza al proprio figlio, di un'Italia pronta a farsi carico di quella volontà. Un'Italia pronta a concedere la cittadinanza al bambino Alfie e a farsi garante di cure d'eccellenza non nel nome dell'accanimento terapeutico, ma dell'umana pietà per una creatura sospesa nel limbo oscuro di una malattia di cui gli stessi medici ammettono di non saper nulla. Una malattia che, come vediamo in queste ore, non è bastata a spegnere la volontà di vivere del bimbo Alfie. Nonostante le previsioni dei professoroni dell'Alder Hey Children's Hospital, nonostante le sentenze dei parrucconi d'Albione prontissimi nel staccargli la spina Alfie respira ancora, invoca un sorso d' acqua e non molla.

E la sua ferrea e indomabile volontà di sopravvivere è oggi il peggior sberleffo al meschino e disumano silenzio di una Corte nata per difendere i diritti dell'Essere Umano.

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