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Attacco militare a Kim, Trump frena

Il presidente: non è la prima scelta. Tokyo: «La bomba coreana vale 10 Hiroshima»

Attacco militare a Kim, Trump frena

In attesa del prossimo test missilistico nordcoreano, che i bene informati pronosticano avverrà entro una decina di giorni, a fare da padrone in questi giorni di ansia per la crisi internazionale sono le parole. Non sempre facili da interpretare, e talora palesemente fuori luogo, come quelle di certi italiani aspiranti salvatori del mondo che si offrono per improbabili mediazioni senza dimenticare di esaltare «le bocce delle nordcoreane».

Le diplomazie si muovono, con i principali attori ormai consapevoli che la pretesa di un regime cinico e pericoloso come quello di Pyongyang di essere ammessa nel club delle potenze nucleari rimescola le carte di un gioco che sembrava bloccato sine die. Ecco dunque la Russia di Vladimir Putin che gioca le sue carte per ostacolare i giochi dei rivali americani, incontrando emissari di entrambe le Coree e del Giappone; ecco Seul e Tokyo, strettissimi alleati degli Stati Uniti, che cominciano a muovere passi indipendenti da Washington, prese dallo sgomento che un giorno Donald Trump si trovi costretto a dover scegliere tra salvare da un'aggressione di Kim Jong-un le città americane o quelle sudcoreane e giapponesi. In Giappone fa enorme impressione che la bomba dell'ultimo test nordcoreano fosse dieci volte più potente di quella che rase al suolo Hiroshima nel 1945.

Ed ecco la Cina, da decenni abituata a usare la Corea del Nord come strumento di pressione contro gli Stati Uniti in una complessa partita di potere regionale, fare i conti con una realtà in evoluzione, che vede il nipote di Kim Il-sung trasformarsi in una minaccia potenziale perfino per la Cina rossa degli eredi di Mao.

Grande confusione sotto il cielo e situazione eccellente, come diceva quest'ultimo? L'unico che in questo momento può dirlo è proprio lo spregiudicato Kim Jong-un, maestro di ricatti e abile approfittatore (lo si comprende in questi giorni) della sottovalutazione americana, durata decenni, della volontà del suo regime di diventare a colpi di missili balistici e bombe atomiche uno scomodo protagonista della scena internazionale.

Anche Putin, che con la Corea del Nord mantiene rapporti che è ormai ingenuo definire ambigui, cerca di portare a casa i suoi risultati, con l'obiettivo fisso di fare lo sgambetto all'ex presunto amico del cuore Donald Trump. Putin ha ripetuto anche ieri che Kim Jong-un non va messo nell'angolo, che le sanzioni non risolvono nulla e che occorre discutere con la Corea del Nord «andando oltre», e chissà se almeno lui sa cosa intende dire con queste parole.

Il più in difficoltà, giorno dopo giorno, sembra essere proprio Trump. Costretto a svegliarsi dal proprio semplicistico sogno di poter risolvere la crisi nordcoreana «con la furia e col fuoco», deve ascoltare i suoi generali che gli consigliano cautela: infilarsi in un conflitto con Pyongyang rischia davvero di innescare una catastrofe. Intanto il presidente americano, dopo aver piazzato armamenti per miliardi di dollari in Corea del Sud e Giappone, continua a cercare alleati al telefono. Ieri ha sentito il cinese Xi Jinping ma anche diversi leader europei, ai quali ha ripetuto la magica frase «ogni opzione è sul tavolo».

Ma ha anche ammesso che «l'attacco non è la prima opzione» e la sensazione è che tutte quelle opzioni sul tavolo ci rimarranno, e che il dittatore nordcoreano vincerà la sua partita con gli americani infuriati e impotenti costretti a difendersi dalla sua calcolata follia.

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