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Banche, cala il sipario Monti si autoassolve: "La troika non c'è stata"

Ultima giornata di audizioni prima della relazione finale. Carrai: lecita la mia mail

Banche, cala il sipario Monti si autoassolve: "La troika non c'è stata"

Roma Signori si chiude. Si chiude senza ascoltare Marco Carrai sul caso che tiene il Pd sui carboni ardenti. Lasciando invece il palcoscenico a una simpatica passerella dell'ex premier Mario Monti che cerca in tutti i modi di discolparsi dal sospetto di essere stato una «testa di ponte» del «dolce golpe» del 2011, quello che condusse alla caduta del governo Berlusconi sotto il «crepitar di spread» (come aveva raccontato l'ex ministro Tremonti). Macché, dirà Monti. Le banche stavano benone, Sarkozy e Merkel non avevano una «percezione di rischio per le banche» e «se avessimo dato soldi pubblici alle banche italiane nel 2011 avremmo pregiudicato ulteriormente, forse fino al default, la posizione dei titoli di debito dell'Italia». E in Italia non «c'è stata nessuna Troika», neppure mascherata. Giusto un po' di «stringer la corda», come dice l'uomo che da Palazzo Chigi affogò quel poco che galleggiava di un'economia agli sgoccioli.

Si torna così al 2011 e ai complicati intrecci bancari e finanziari che portarono la Bce a inviare la famosa lettera-diktat del 5 agosto. «Era fuori dalle competenze di Eurotower», lamenta Monti che ricorda di averla pure condannata in un articolo sul Corsera. Prova (?) che non avrebbe fatto parte di alcun complotto, anche perché sarebbe stato chiamato da Napolitano non in virtù di una scelta «tecnica», ma solo in quanto era «una delle poche persone a non aver fatto politica e ad aver dimestichezza e credenziali in Europa». Mentre, prima del suo avvento quaresimale, Monti dice di essere rimasto «sorpreso che il governo Berlusconi accettasse la lettera come legittima e imperativa, precipitandosi a far propri gli obbiettivi».

Insomma, le rievocazioni montiane sembrano giusto finale per la semiseria commissione bancaria. Che chiude dopo 200 ore di audizioni e 48 persone ascoltate in 47 sedute, come vanta lo «stremato» (parole sue) presidente Casini, che non vede l'ora di una rimpatriata con l'azzurro Brunetta «su a Cortina» nelle vacanze natalizie. Su quel 48.mo che non parlò davanti all'ufficialità del consesso parlamentare si discuterà a lungo, anche perché, in contemporanea intervista al Corsera, Carrai racconta la sua versione, e senza contraddittorio. «La mail a Ghizzoni era lecita, Renzi non lo sapeva», eccetera. Un Matteo-disculpe che rafforza l'odore di solenne presa in giro. Giorgia Meloni, leader di Fdi, s'indigna perché «a Casini è bastato sentire da Carrai che Renzi non ne sapeva nulla: l'ennesimo insulto contro le migliaia di risparmiatori». Massimo D'Alema constata che «il fatto stesso che un esponente di governo s'interessi è una pressione: c'era - dice - più di un interesse personale; c'era un gruppo di potere spregiudicato e arrogante.

E il capo non era Boschi, ma Renzi».

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