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Di Battista scopre l’America: i nuovi capitalisti sono buoni

Il grillino tifoso del Che folgorato sulla via della Silicon Valley: se Musk non paga le tasse è per entrare nella storia

Di Battista scopre l’America:  i nuovi capitalisti sono buoni

Avete in casa l'opera omnia di Bruce Chatwin e Tiziano Terzani? Buttatela via. Se vi fa comodo mettete nella differenziata anche il Milione di Marco Polo. Se poi, per caso, conservate anche tutti gli sforzi canori di Jovanotti potete eliminare anche quelli. Perché? Beh, perché se avete bisogno di spazio c’è un’opportunità unica: è arrivato il primo reportage di Alessandro Di Battista dagli Stati Uniti. Rullino i tamburi e suonino le fanfare, dopo una lunga gestazione il grillino dei due mondi ha partorito due pagine che sono il Google Maps dei luoghi comuni. Il bignami definitivo del buonismo globalista in Birkenstock. La sublimazione dell’idea che per capire il tuo Paese debba andare dall’altra parte del mappamondo. Col risultato che poi non capisci un belino di quello che succede sotto casa tua.

Partiamo da un assunto: Di Battista fa il Che Guevara figo e di non governo. Mentre Di Maio incanutisce tra le scartoffie deiministeri, lui si abbronza aggirandosi tra gli ultimi delmondo. Che poi scopriamo essere i penultimi e a volte anche gli stra primi. Ma il nostro pensa di scrivere come Bruce Chatwin e di avere la spiritualità tridimensionale di Tiziano Terzani, col risultato caricaturale che consegna al Fatto una lenzuolata infinita (solidarietà ai colleghi che hanno dovuto passare, impaginare e titolare il pezzo) che si potrebbe riassumere in una minima immorale jovanottesca: credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa (passando per Elon Musk, ndr). Logico, lineare, consequenziale: un assassino, una Santa e uno squalo della gig economy. Ecco la cartella clinico-politica del Dibba pensiero tour.

Di Battista, su e giù per le Americhe a bordo di autobus scassati con moglie e figlio di otto mesi, è finalmente approdato a San Francisco, «matria» della grande ondata acida e hippy degli anni Sessanta e patria del ceo capitalism. E il Dibba va in tilt. Si fa un giro alla Tesla (azienda che produce auto futuristiche e tecnologiche, chiavi in mano dagli ottantamila euro in su) e si innamora del capitalismo spericolato. Dai che forse è la volta buona, verrebbe da pensare. «Come se fossi a Disneyland, un trenino mi ha trasportato nel futuro» scrive con gli occhi a cuore. Certo, l’azienda è quasi totalmente robotizzata e Elon Musk, il fondatore, ha dovuto lasciare a casa tremila lavoratori. Ma gli è dispiaciuto un casino, eh. «Per quel che ho letto sul suo conto tendo a credergli. I Ceo dei giganti hi-tech della Silicon Valley non si sono ammalati della febbre dell’accumulazione di denaro. Gli incredibili profitti sono mezzi per continuare a creare.

Senza miliardi di dollari da spendere in ricerca e sviluppo, le loro visioni non potrebbero concretizzarsi e il loro più grande obiettivo - incidere sulla storia dell’umanità (sic) - non si realizzerebbe». Ovviamente Musk, come Zuckerberg e soci, non sono propriamente dei samaritani e a differenza di Dibba si muovono in jet privati, acquistano isole, yacht e quando possono spostano i conti delle loro aziende in paradisi fiscali. «Senza fondi di venture capital - racconta il nostro inviato dalla fantascienza - e senza avvocati capaci di far pagare decine di miliardi di tasse in meno la Silicon valley sarebbe desolata». Evadono, ma lo fanno per noi, ci assicura Di Battista. E noi gli crediamo, ma allora ci spieghi perché quando torna in Italia i capitalisti sono il demonio, il denaro è lo sterco del diabolico signorino sopraccitato, gli imprenditori sono in rima baciata evasori e vanno tradotti in carcere, l’Ilva va sigillata, la Tav bloccata e le grandi opere boicottate.

Si decida, faccia due chiacchiere con se stesso, prima di mettersi a parlare dei destini del mondo con il benzinaio dell’Ohio, eviti di lasciare il buonsenso in aeroporto tra i bagagli smarriti.

Dopo Tesla tocca a Facebook. Amore a prima vista: «I dipendenti hanno diritti che sono preclusi al 99 per cento degli americani. Gli stipendi sono eccezionali, i dipendenti vengono coccolati, 150 bus portano i dipendenti da casa al lavoro, hanno le migliori assicurazioni sanitarie d’America e 12 ristoranti dove si mangia gratis tutto ciò che si vuole». Diamine, ma allora, se questo capitalismo è il paradiso portiamolo anche in Italia. Dibba si infili la ricetta nello zaino da interrail e torni subito a casa. Invece no, perché, alt!, qui parte la seconda personalità di Di Battista che, dopo aver esplorato gli apici della società Usa, decide di scendere (in autobus) fino agli abissi dell’emarginazione. Con la compagna Sarah va a far volontariato in quartiere disagiato di Frisco e ci comunica - con lo stupore del marinaio che grida «Terra! Terra!» dalle caravelle di Colombo - che in America ci sono anche i poveri e gli emarginati. Toh, mai nessuno ce lo aveva raccontato prima.

Da qui in poi è una cosmogonia luogocomunista che termina con una marchetta ai Cinque stelle, perché anche se è in vacanza deve far vedere a Casaleggio che lavora: quindi l’unica soluzione è il reddito universale. Dibba ha le idee chiare, in alcune cittadine della California lo stanno già sperimentando. (Dopo duecento righe Di Maio tira finalmente un sospiro di sollievo: il ragazzo non l’abbiamomandato a fare l’Erasmus per niente). I soldi? Dibba si è fatto una googlata e ha visto che la California è la quinta economia del mondo, davanti pure alla Gran Bretagna? Pare di no, ma ci sventaglia una ricetta geniale: «Qui hanno la property tax, l’imposta sulla casa, paghi ogni anno l’1,2 per cento del valore dell’immobile. Se hai una casa da 2 milioni di dollari paghi 24mila dollari l’anno». (Giggino torna a tremare e vede già Salvini che lo agguanta alla giugulare: ma perché non lo abbiamo mandato a fare l’inviato al bio parco?)

E a noi per la prima volta passa nella sala d’attesa del cervello un dubbio che mai avremmo pensato di ospitare: ma perché a ’sto giro è stato fermo, non poteva candidarsi di nuovo e finire a pigiar bottoni a Montecitorio invece che a digitare banalità dagli States?

Ps: Tra una speculazione filosofica e l’altra Dibba ci comunica anche che tra un paio di mesi il pargolo compirà un anno e lui vuole che lo festeggi «in una comunità Guatemalteca. Una comunità senz’altro povera, ma sana. Lo voglio vedere circondato da bambini ai quali basti fare un giro nella selva per passare giornate memorabili». Praticamente Mowgli. Se fossimo un po’ grillini - di fronte a questo fagotto sballottato su e giù per il mondo mangiando bacche e cibo tex mex - lanceremmo la campagna: #liberosubitoilpiccolodibba.

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