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Belgio multietnico e felice? Propaganda Mondiale

La nazionale dei "Diavoli rossi" dipinta come simbolo dell'integrazione: una favola. Nella capitale d'Europa uno su quattro è islamico

Belgio multietnico e felice? Propaganda Mondiale

C'è un'immagine che durante i mondiali di calcio in Brasile diventò virale: si vede il portiere degli Stati Uniti Tim Howard in tuffo tra le Torri Gemelle nell'intento di fermare gli aerei dei terroristi. Forse era di cattivo gusto, ma Howard, nella realtà, stava bloccando un tiro a rete di Marouane Fellaini, fantasista marocchino naturalizzato belga che gioca nel Manchester United. Dalle parti di Bruxelles Fellaini è un idolo, l'esempio di un'integrazione che però è solo strumentale, perpetrata dai governi che si sono succeduti per rastrellare voti. I «diavoli rossi», con le trasfusioni di sangue del kenyota Origi, del marocchino Chadli, del caraibico Witsel, del congolese Lukaku, del kosovaro Januszai o del congolese Batshuayi, sono l'eccezione di una regola inquietante.

Nascondere la polvere sotto al tappeto ha creato negli anni problemi che sono venuti a galla in tutta la loro drammaticità con il blitz anti-jihadista dell'altra sera. Nonostante il buonismo degli ex premier Van Rompuy, Leterme e Di Rupo (oggi i problemi se li accolla tutti Charles Michel), a Bruxelles vivono da sempre leader e militanti jihadisti in esilio. Un immigrato su quattro è musulmano. Nel 2001 da Bruxelles partirono i killer tunisini del comandante afghano Massoud. Il Belgio è nelle percentuali il Paese con la più alta presenza di volontari jihadisti in Europa. A fronte di 9 milioni di abitanti, più di 500 combattenti sono approdati in Siria. Bruxelles è la città più islamizzata del Vecchio Continente: 300mila persone, un quarto della popolazione, seguono i dettami del Corano.

La fucina jihadista si colloca a Molenbeek-Saint-Jean, una delle 19 communes che compongono la capitale. Con più di cinquemila giovani sotto i diciotto anni, su 13mila abitanti, è il quartiere più giovane di Bruxelles. Ma è anche quello con il tasso di disoccupazione più alto, oltre il 43%. Facile cadere nella tentazione integralista. Numerose sono le moschee e i bazar in stile maghrebino. Il vociare nelle piazze e nelle case ha un forte accento arabo. Si ha la viva sensazione di trovarsi nel quartiere di una città del nord Africa più che del nord Europa. Il 6 maggio del 2009 da quelle parti si esibì, per la prima volta all'estero, la nazionale di calcio della Palestina. L'iniziativa rientrava nel quadro delle celebrazioni per il 60° anniversario dell'Unrwa, l'agenzia dell'Onu per i rifugiati palestinesi. Il progetto «Un goal per la Pace» avrebbe dovuto offrire una chance di riqualificazione per Molenbeek. Tutto questo però non è accaduto, e a distanza di quasi sei anni, solo per fare un esempio, la fermata della metropolitana «Ribaucourt» continua a essere crocevia di crimine e spaccio, ma anche luogo di incontro per reclutamento verso Siria, Iraq e Mali.

La vasta operazione di giovedì sera ha i connotati di una scelta obbligata dopo i fatti di Parigi. Ci sono evidenti punti di convergenza e complicità. Considerare il Belgio debuttante al ballo del terrorismo di matrice islamica è ingannevole. La strage al museo ebraico del 24 maggio scorso, quando il terrorista franco-algerino Mehdi Nemmouche uccise con un AK47 tre persone, è uno degli episodi che hanno macchiato il Paese sede dell'Ue. Viaggiando a ritroso (ma non troppo) nel tempo, ci si imbatte nel diacono cattolico Leo Van Gink, ridotto in fin di vita in un bar a Essen, sobborgo di Anversa, perché portava la croce al collo. I suoi aguzzini erano del gruppo salafita Sharia4, gli stessi oggi sul banco degli imputati nel maxi-processo di Anversa, accusati tra le altre cose di aver introdotto in Belgio un tribunale della Sharia.

Tutti fedelissimi di Fouad Belkacem, 32enne di origine marocchine, che si fa chiamare anche Abu Imran e che arruolava fedelissimi di Al Baghdadi per la guerra in Iraq.

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