Cronache

Bimbo sciolto nell'acido, ma al posto dei mafiosi a pagare sarà lo Stato

Ai familiari del piccolo Di Matteo 2,2 milioni. Ma i sei condannati risultano nullatenenti

Bimbo sciolto nell'acido, ma al posto dei mafiosi a pagare sarà lo Stato

Lo rapirono e lo uccisero perché suo papà si era pentito, poi però si sono pentiti anche loro quasi tutti. Quelli che non hanno «cantato» hanno avuto i beni confiscati. Così la morale della tragedia di Giuseppe Di Matteo è che il risarcimento alla famiglia lo pagherà lo Stato. Nei giorni scorsi il tribunale civile di Palermo ha condannato sei mafiosi a versare due milioni e duecentomila euro alla madre e al fratello del ragazzino che amava i cavalli. Ma tutti e sei - a partire dal boss Giuseppe Graviano e dal «collaborante» Gaspare Spatuzza - sono ufficialmente nullatenenti. Così a versare i soldi sarà il Fondo per le vittime di mafia, istituito presso il ministero degli Interni.

«Usciamocene». Così Giovanni Brusca, furioso dopo avere appreso che alcuni boss erano stati condannati in un processo, diede l'ordine di mettere fine alla lunga prigionia di Giuseppe Di Matteo. Lo aveva fatto rapire oltre due anni prima, per fare pressione sul padre Santino, che si preparava a tradire Cosa Nostra. Gestire la lunga prigionia del ragazzino, sempre più debole, era diventato complesso e soprattutto inutile. Così il fratello di Brusca, Enzo, e Giuseppe Monticciolo, strangolarono l'innocente. Si dice che non oppose resistenza.

Si è pentito Giovani Brusca, si è pentito suo fratello Enzo, si è pentito Monticciolo, e uno dopo l'altro si sono pentiti tanti protagonisti e gregari del delitto forse più raccapricciante degli anni di fuoco di Cosa Nostra. Oggi quasi tutti quelli coinvolti nell'affare D Matteo sono liberi o ai domiciliari. Di uno di loro, Vincenzo Chiodo, si scoprì qualche tempo fa che non aveva fatto neanche un giorno di cella. In carcere, a pagare per quella vita spezzata, sono rimasti ergastolani di lungo corso come Leoluca Bagarella.

L'ultima infornata di condanne nasce dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza, che era alla testa del commando di finti poliziotti che rapì il ragazzino al maneggio di Altofonte, facendogli credere che lo portavano ad incontrare il padre. Spatuzza, dopo essersi pentito pure lui, chiese con voce spezzata perdono «per la fine di quel bellissimo angelo cui abbiamo stroncato la vita», e se la cavò con la condanna a dodici anni. Ora, in base alla sentenza del tribunale civile di Palermo, anche lui dovrebbe contribuire a risarcire la mamma e il fratello della sua vittima. E anche lui, come gli altri, non scucirà un euro.

«Ciò che è stata lesa è la dignità della persona, il diritto del minore ad un ambiente sano, ad una famiglia, ad uno sviluppo armonioso, in linea con le inclinazioni personali, ad un'istruzione», scrive il tribunale di Palermo nella sentenza che insieme a Spatuzza condanna Giuseppe Graviano, Benedetto Capizzi, Cristoforo Cannella, Francesco Giuliano e Luigi Giacalone: e più che sulla barbarie dell'uccisione, dell'oltraggio finale del corpo sciolto nell'acido, insiste sul dramma vissuto dal ragazzino nei suoi 779 giorni nelle mani dei rapitori, con gli ultimi sei mesi - si disse - passati sottoterra, sotto una botola ricavata in una masseria. «Le condizioni del rapimento - aggiunge il giudice - hanno di fatto del tutto soppresso i diritti del minore. Ancora prima dell'omicidio il Di Matteo, tredicenne, è stato privato della libertà personale per oltre due anni.

Tale circostanza, in relazione alle inumane e degradanti condizioni di prigionia tanto più in considerazione dell'età del soggetto rapito, rendono di primario rilievo il pregiudizio patito dal Di Matteo».

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