Politica

Il bocconiano rosso che litiga con tutti

Nella sua collezione di nemici Letta, Veltroni, i Giovani turchi e il premier

Il bocconiano rosso che litiga con tutti

Roma - È sempre stato la pecora nera del Pd renziano, quello che in più occasioni ha creato malumori tra i democratici. I suoi scontri con i dirigenti di peso del partito sono cominciati molto prima di quel «Fassina chi?» pronunciato dall'allora segretario Matteo Renzi.

Il suo rapporto con il Pd è dal primo momento conflittuale, sin da quando l'ex viceministro dell'Economia comincia a muovere i primi passi nella segreteria nazionale dopo essere stato negli anni Novanta, poco più che ventenne, segretario nazionale della Sinistra giovanile. Stefano Fassina, romano, una moglie maestra elementare e tre figli, una passione da sempre per il baseball che ha giocato a livelli nazionali, nel 2009 viene chiamato da Pier Luigi Bersani a ricoprire il ruolo di responsabile economico del Pd dove si schiera con la prima linea dell'area più intransigente della maggioranza interna, a sinistra del Pd nonostante il suo passato alla Bocconi (dove contestò l'allora rettore Mario Monti salvando il suo corso di laurea dalla cancellazione) e la sua carriera interrotta al Fondo monetario internazionale. Sempre pronto a attaccare chiunque provasse a contestare la linea della segreteria. Una fama da duro che gli è valsa i consensi dei radicali e le critiche dei più vicini al giovane rottamatore.

Si ricorda in particolare quando attaccò l'ex segretario Walter Veltroni sull'articolo 18 e un episodio del 2011 quando polemizzò con Pietro Ichino dicendo in un'intervista che il giuslavorista «rappresentava il 2 per cento del Pd». In opposizione a Renzi e al suo «liberismo riformista», nel 2010 Fassina fonda con Matteo Orfini e Andrea Orlando la corrente dei Giovani turchi, che abbandona tre anni dopo in polemica con le loro «idee passatiste» restando da solo dalla parte di Bersani. Dopo aver trionfato alle primarie per la scelta dei parlamentari prendendo 11mila preferenze a Roma, più del doppio di Orfini, e dopo le dimissioni di Bersani viene scelto come sottosegretario del governo Letta: sarà viceministro dell'Economia nel dicastero guidato da Fabrizio Saccomanni. Un ruolo cruciale, che ricopre senza riuscire però ad incidere sulle scelte dell'esecutivo. Di qui il disagio che culmina con la minaccia di dimissioni dal governo quando denuncia la mancanza di collegialità nella stesura della legge di Stabilità. Dopo un incontro chiarificatore con il premier Enrico Letta le dimissioni però vengono ritirate. Nessun dietro-front, invece, nel gennaio del 2014, dopo la nota frase irridente di Renzi. Durante la conferenza stampa al termine della segreteria del partito il rottamatore, nel frattempo vincitore delle primarie, aveva finto di non ricordare chi fosse il viceministro dell'Economia. Dopo il celeberrimo «Fassina chi?» il vicemistro lascia il governo, bruciato ma deciso a continuare a dare il suo contributo dai banchi della Camera. Questa volta la mediazione dell'allora premier Letta non basterà a trattenerlo. L'addio sarà soft, forse una liberazione per Fassina dopo tutte le incomprensioni con il Pd e il ruolo di governo che aveva limitato la sua autonomia. Da quel momento in poi sarà una critica continua al governo Letta e al successivo governo Renzi, al quale non voterà più la fiducia a nessun provvedimento chiave.

Negli ultimi mesi Fassina, insieme a Pippo Civati, Corradino Mineo e altri dissidenti, aveva detto decine di volte che non si poteva più stare nel Pd «di destra» a gestione renziana.

Ma soltanto martedì notte a Capanelle la rottura definitiva.

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