Politica

Cameron è nella bufera La Ue studia una black list

Il premier britannico sotto assedio per lo scandalo dei conti off-shore. Ma tremano i potenti di mezzo mondo. E adesso Bruxelles mette nel mirino i paradisi fiscali

Luciano Gulli

Difficile dar torto a Tom Watson, numero due del partito laburista, quando accusa il premier David Cameron di ipocrisia. È vero che le colpe dei padri non devono ricadere sui figli, consente Watson. Il problema è che Cameron «non ha fornito spiegazioni immediate al popolo britannico» sperando di farla franca, ha detto Watson alla BBC. Stiamo parlando delle carte di Panama, ovvero delle azioni possedute da Cameron nel fondo di investimento offshore istituito da suo padre nel 1980 e del suo tartufismo; del moralistico sermoneggiare del premier nei confronti di chi, in passato, era stato sorpreso a frodare il fisco parcheggiando il proprio gruzzolo nei paradisi fiscali.

Non è un gran momento, per David Cameron e per gli altri suoi illustri compagni di cordata, presi come ladri di polli con le mani nel sacco. E se zar Putin può ragionevolmente pensare di farla franca, negando l'evidenza e accusando l'America di avere ordito il complotto, non altrettanto può fare Cameron, sul cui futuro politico si allungano ombre sinistre. Watson chiede che Cameron fornisca «spiegazioni al popolo britannico» su quei 5 mila titoli del Blairmore Investment Trust registrato alle Bahamas fra il 1997 e il gennaio del 2010, cioè quattro mesi prima di insediarsi sulla poltrona di primo ministro. Quei titoli erano stati pagati 12.497 sterline nel '97 e ne fruttarono 31.500 a gennaio del 2010. Peccato che di lì a poco Cameron sia diventato primo ministro, vien da commentare. Avesse perso le elezioni, oggi quel gruzzolo (anche se è facile vincere di più indovinando la parola a «L'Eredità», da Frizzi) varrebbe più di quarantamila sterline. Ma vista la relativa modestia della cifra, forse è meglio che sia andata come è andata. Anche se l'accusa di essere un bugiardo, nel mondo anglosassone della correctness, vale come una pietra da mulino appesa al collo. Ma soprattutto: se non ci fosse stata la politica di mezzo, vien da pensare che quei denari sarebbero rimasti dov'erano, a fruttare interessi, giusto mister Cameron?

Nel vaso di Pandora dei Panama Papers ci sono frutti avvelenati anche per il team dei Clinton, che attraverso un perverso gioco di incastri si vedono accostati ai truffardi maneggioni di Mosca che gravitano all'ombra dello zar. Possibile? La candidata del Partito democratico, la soave Hillary, legata ai circoli affaristici della nomenklatura? Possibile. Non vero, ma verosimile. Il che non è meno catastrofico per una candidata alla Casa Bianca.

Il trait d'union è il «Podesta Group», società di Tony Podesta, e fratello di John, ex capo dello staff di Bill Clinton e ora manager della campagna di Hillary. Dopo i siti di informazione conservatori, ora ci si è messo anche il New York Observer, che è di proprietà di Jared Corey Kushner, marito di Ivanka Trump, e genero del candidato alla Casa Bianca Donald. Secondo l'Observer, la società di consulenze fondata dal 1998 da Tony Podesta insieme al fratello John dallo scorso marzo svolgerebbe attività di lobbying anti-sanzioni per la Sbrebank, la più grande banca russa. Banca che secondo le Carte di Panama partecipa alla rete di accordi e creazioni di società offshore che porterebbero al circolo più ristretto di Vladimir Putin. Et voilà spiegato il diabolico intreccio.

Il tema delle carte panamensi va forte anche a Bruxelles, dove l'esecutivo presieduto da Jean Claude Juncker si impegna a creare entro sei mesi una black list europea che si fondi su una nozione comune di paradiso fiscale.

Quanto alle relative sanzioni da applicare: beh, si vedrà. Non si può pretendere tutto e subito, no?

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