Politica

Il caos di Tripoli e il nuovo sos migranti «Venite a salvarci, stiamo morendo in mare»

Haftar verso la Capitale, migliaia pronti a partire. A largo della Libia 8 dispersi

Gian Micalessin

Difficile dire chi stia vincendo. L'Esercito Nazionale Libico del generale Khalifa Haftar, esercito di nome, ma milizia di fatto, martedì era impantanato a venti chilometri da Tripoli, bloccato un po' dalla mancanza di carburante, un po' dalle controffensiva delle milizie del governo di Fayez Al Serraj. Ieri dopo l'arrivo dei rifornimenti partiti da Cirenaica e regioni meridionali del Fezzan è tornato ad avanzare conquistando il sobborgo di Ain Zara a 11 chilometri dal centro.

Ma se capire chi vince è complesso è chiaro, invece, che i primi a perderci, almeno sul fronte internazionale, siamo noi italiani. E non solo perché rischiamo di dover rinunciare al gas e al petrolio dell'Eni, ma anche perché siamo a un passo dal fronteggiare un nuovo incontrollabile esodo di migranti. Martedì l'Alto Commissariato per i Rifugiati dell'Onu ne ha soccorsi 47 «dimenticati» nel centro di raccolta di Ain Zara trasformatosi, poche ore dopo, in una sanguinosa prima linea. Ad abbandonarli nelle celle senza acqua e cibo erano stati i loro guardiani fuggiti all'avvicinarsi delle truppe di Haftar. In tutta Tripoli sono migliaia i disgraziati detenuti nei centri di raccolta controllati dall'Onu e Organizzazione Internazionale per i Migranti o nei depositi di umani gestiti da milizie e trafficanti di uomini.

È chiaro che con il perdurare degli scontri sarà sempre più difficile non solo garantire rifornimenti di carburante alla guardia Costiera, ma anche reperire comandanti ed equipaggi. Il progressivo degrado della situazione minaccia anche di bloccare il trasferimento di sovvenzioni governative indispensabili per convincere le milizie a rinunciare al lucroso traffico di umani. La Guardia Costiera potrebbe così cessare la sua attività mentre tornerebbero a funzionare a pieno ritmo le rotte del traffico alimentate dalle masse di disperati. In queste ore bisogna però far attenzione alle notizie, amplificate o distorte ad arte, da chi ha interesse a esagerare l'allarme per rimettere in moto la macchina dei soccorsi gestita dalle Ong . Tra queste rientrano le notizie forse tragiche, ma irrilevanti rispetto alla situazione bellica a Tripoli, diffuse da «Sea Watch» e da «Mediterranea Saving Humans», la Ong dell'ex-esponente dei centri sociali Luca Casarin. Da ieri le due organizzazioni accusano la Guardia Costiera di Tripoli di aver abbandonato al proprio destino una barca alla deriva con venti migranti a bordo da cui sarebbero caduti in mare otto disperati. Alarm Phone, il centralino di soccorso utilizzato per diramare le richieste di soccorso alle Ong attive davanti alle coste libiche ha diffuso la registrazione dell'appello lanciato via cellulare da uno dei naufraghi. «Stiamo morendo, moriremo in mare, moriremo in Libia e in Tunisia. Se non arriviamo in Italia moriremo tutti». E subito dopo sono arrivati gli attacchi alla Guardia Costiera di Tripoli colpevole di non muovere i propri mezzi. Ma l'imbarcazione, partita presumibilmente dalla città Zuwara, non è alla deriva davanti alla capitale, bensì di fronte al confine con la Tunisia, 150 chilometri più a ovest. Una zona in cui difficilmente si spingono le motovedette libiche, ma dove potrebbero arrivare molto più facilmente quelle del Centro di Soccorso di Tunisi. Che però, fa sapere Sea Watch, sostiene di non avere mezzi a disposizione e non risponde più alle chiamate. Ma sul fronte della solidarietà l'Ue non è messa meglio. Quasi una settimana fa la Commissione Europea ha lanciato un appello agli Stati membri per garantire un porto sicuro ai migranti imbarcati sulla «Alan Kurdi» dell'Ong Sea Eye.

Ieri la portavoce della Commissione ha fatto sapere di non aver ancora ricevuto alcuna risposta.

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