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La carica degli avvocati che gettano la toga per fare gli impiegati

Troppi legali, poco lavoro. E in centinaia concorrono ai posti in tribunale a 1.500 euro

La carica degli avvocati che gettano la toga per fare gli impiegati

«Il mio sogno era fare l'avvocato, ma non vivo questa scelta come una sconfitta. Finalmente, a ventinove anni, posso mantenermi da solo senza l'aiuto dei miei. Non ci speravo più». Sono arrivati a ondate successive, nei tribunali di tutta Italia e soprattutto del nord. Un esercito di assunzioni, le prime dopo decenni di blocco del turnover: nelle cancellerie dei palazzi di giustizia un mare di facce nuove si sono mischiate a colleghi ormai incanutiti, andando a colmare i buchi di un organico un tempo pletorico. Tutto bene, si potrebbe dire. Però se si va a parlare con loro, se li si incontra uno per uno, i nuovi assunti raccontano una storia diversa, e per alcuni aspetti drammatica sullo stato del Paese. Per partecipare al concorso, bastava il diploma di scuola media superiore. In realtà, a partecipare sono stati centinaia di miglia di laureati, e questo accadeva anche in passato. Ma stavolta a partecipare e a vincere sono stati anche centinaia di avvocati. Uomini e donne giovani e meno giovani, che hanno sudato sui banchi dell'università, hanno pesato sui bilanci delle famiglie, hanno passato l'esame di abilitazione professionale; molti di loro hanno anche esercitato per anni la libera professione. E ora buttano la toga alle ortiche per un posto fisso alle dipendenze dello Stato.

G. è uno di loro, uno delle centinaia arrivati a Milano tra l'inverno e la primavera. Tecnicamente si chiamano «assistenti giudiziari»: millecinquecento euro di stipendio, mansioni che comprendono un po' di tutto, un grado sotto ai cancellieri. C'è di peggio, nella vita. Se non fosse per quel titolo, «avvocato», che fino a ieri stava sui loro biglietti da visita, e che li rendeva parte di una categoria un tempo prestigiosa, aristocrazia sociale, un posto di rilievo nel Gotha delle professioni liberali borghesi; e che ora vive una crisi devastante dove decine di migliaia di avvocati-massa sono ridotti a inseguire clienti sempre più esigui e sempre meno solventi. Molti stringono i denti, tirano avanti in un modo o nell'altro. Ma G. e altre centinaia hanno rinunciato. Da adesso, gli avvocati li vedranno solo dall'altra parte del banco, nelle aule dei processi e nelle stanze degli interrogatori. Finiranno anche loro nel novero delle migliaia di avvocati che ogni anno si cancellano dall'Ordine professionale, arrivato alla folle cifra di 234mila iscritti.

G. viene dal sud, come la stragrande maggioranza dei neo-assistenti. «Ho studiato a Napoli, alla Federico II, mi sono laureato nei termini, dopodiché sono andato a fare pratica legale in uno studio. Fare pratica vuol dire in sostanza lavorare gratis, e pesare ancora per anni sul bilancio dei genitori. Ma è un sacrifico che la mia famiglia ha scelto di affrontare, perché eravamo convinti che ne valesse la pena. E io ho risposto alle loro attese, passando l'esame da avvocato al primo tentativo». E poi? «E poi ho dovuto rendermi conto che il mondo non era come lo sognavo da ragazzo. Che soprattutto al sud farsi conoscere, farsi una clientela, è praticamente impossibile. Davanti a me avevo la prospettiva di pesare per chissà quanti anni ancora sulle spalle dei miei. Poi si è aperta questa possibilità. E ho deciso di coglierla, con amarezza ma senza rimpianti».

Al concorso si sono iscritti in trecentomila, a sostenere le prove si sono presentati in ottantamila. G. è uno dei cinquemila dichiarati idonei, e chiamati in servizio a ondate. «In base al punteggio potevi scegliere la sede. Le prime ad essere richieste erano le sedi del sud. Quando è toccato a me, restavano solo posti al nord. A quel punto ho scelto Milano. La vita è cara, ma c'è il prestigio di un grande tribunale e di una città dove funziona tutto». Con lui sono arrivati anche colleghi e (soprattutto) colleghe anche non più giovani, sposati e con figli, che a provare a fare l'avvocato ci hanno provato più a lungo di lui. E che ora vivono al nord, in una stanza in condivisione. Valeva la pena, dannarsi sui libri e credere in se stessi, per finire così? «Chissà. Ma io non mi lamento.

Un posto fisso oggi è un privilegio».

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