Economia

Caso Eni, tra veleni e vendette il governo dà fiducia a Descalzi

Il premier si schiera col manager indagato a Milano: lo risceglierei ancora, aspetto le sentenze. E nelle indagini spuntano i nomignoli: l'ad è chiamato "Baldy", l'ex ministro nigeriano "Fatty"

Caso Eni, tra veleni e vendette il governo dà fiducia a Descalzi

Giù le mani da «Baldy». Nel giorno in cui dalle carte dell'inchiesta sugli affari dell'Eni in Nigeria trapela il nome in codice di Claudio Descalzi, amministratore delegato dell'azienda petrolifera di Stato, (Baldy equivale a «pelatino», con riferimento alla calvizie del manager) in difesa di Descalzi scende in campo direttamente il presidente del Consiglio Matteo Renzi, che nel maggio scorso lo nominò ai vertici del cane a sei zampe. «Sono felice di avere scelto Descalzi - twitta ieri il capo del governo - potessi lo rifarei domattina. Io rispetto le indagini e aspetto le sentenze». L'accusa di corruzione internazionale non mette di per sé in discussione la permanenza di Descalzi sulla poltrona, anche perché dalla sua l'amministratore delegato ha il precedente di Paolo Scaroni, ad dell'Eni prima di lui, rimasto tranquillamente al suo posto nonostante fosse indagato per lo stesso reato. Ma l' endorsement del capo del governo a suo favore ha indubbiamente rafforzato la posizione di Descalzi, e segnato un nuovo accenno polemico di Renzi verso i pm, in un giorno in cui dettagli dell'inchiesta trapelano un po' dappertutto. Dettagli in cui l'attenzione dei media si focalizza inevitabilmente sul più alto in grado degli inquisiti, e cioè lui. Descalzi, alias Baldy.

L'elenco dei nomi in codice è contenuto negli atti con cui una corte inglese ha sequestrato provvisoriamente, in attesa della udienza di convalida fissata per lunedì prossimo, 190 milioni in possesso di uno dei tanti mediatori della cessione del giacimenti Opl 245 di Zabazaba, cinquecento milioni di barili spartiti tra Eni e Shell. Se Descalzi è Baldy, Fatty ovvero «Ciccione» è Chief Dan Etete, ex ministro nigeriano del petrolio, sui cui conti approderebbe alla fine, secondo l'inchiesta del nuovo governo di Lagos, la gran parte (800 milioni su poco più di un miliardo) del prezzo pagato da Eni per il giacimento. Se fosse una tangente sarebbe una tangente senza precedenti, l'80 per cento dell'importo complessivo. Ma quale sia esattamente la stecca contestata dal pm milanese Fabio De Pasquale non è chiarissimo, secondo notizie di agenzia il pm contesterebbe addirittura l'intero miliardo, secondo altre fonti si parla di 500 milioni. Insomma, grande confusione, a riprova di come sia difficile muoversi in una vicenda in cui la procura milanese si trova a dover applicare un reato italiano ad una realtà dove la differenza tra mediazioni, corruzione, affari pubblici e affari privati è spesso fumosa. La conseguenza è che per il momento la rogna maggiore per il top manager di Eni potrebbe venire non tanto dai soldi distribuiti in Nigeria per oliare una operazione strategica come quella di Zabazaba, né dal fatto che parte della somma sia stata usata dal governo nigeriano per comprare armi, quanto dalle ipotesi secondo cui una parte dei soldi sarebbe finita alla fine non sui conti dell'ex ministro «Fatty» Etete ma sarebbe tornata in Italia nelle tasche di alcuni protagonisti italiani della vicenda. E se una ipotesi del genere dovesse prendere corpo, è chiaro che la musica cambierebbe.

Finora, quello che trapela alle carte dell'indagine è soprattutto la rabbia dei mediatori che inizialmente avevano trattato con Eni e Shell per essere stati tagliati fuori dalla conclusione dell'affare. Se per tacitarli alla fine qualcuno (sul fronte nigeriano o italiano) ha messo mano al portafoglio, questo non può costituire un reato perché non si tratta di pubblici ufficiali.

In attesa che vengano individuati i politici corrotti, l'inevitabile clamore mediatico che in Italia ha suscitato la notizia dell' impeachment di Descalzi dà fiato a dietrologie di ogni tipo, anche alle più velenose e incredibili: come chi vede in Paolo Scaroni, deluso per la mancata nomina a presidente di Eni, un osservatore «non scontento» dei guai mediatici del suo successore; o chi, come ieri Libero , si spinge a collegare lo scoop del Corriere della Sera al disappunto del direttore del quotidiano milanese nei confronti del faccendiere Luigi Bisignani, anche lui indagato nell'affare.

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