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Il caso Sabella e le vittime dei tribunali

Il caso Sabella e le vittime dei tribunali

«Ho pensato al suicidio perché sono stato condannato a morte dallo Stato. Sono stato un fottuto idealista, ma mi devo arrendere al fatto che ho sacrificato tanto allo Stato e ora lo Stato sacrifica me». È il durissimo sfogo affidato a Vanity Fair dal magistrato Alfonso Sabella. Da ex del servizio ispettivo del Dap deve un milione di euro allo Stato per risarcire i detenuti del carcere provvisorio di Bolzaneto che al G8 di Genova nel 2001 vennero torturati. Una condanna in primo grado della Corte dei Conti per responsabilità «in via sussidiaria» che, beffa delle beffe, ha annullato la sua nomina a consigliere della stessa Corte, nomina voluta da Paolo Gentiloni. Poco importa che al processo penale sia stato archiviato. Sabella si dice «amareggiatissimo» («Sono stato l'unico a rinunciare alla prescrizione ma non è mai stata data la possibilità di produrre un documento o far sentire un testimone»), si dice vittima di un complotto «per aver detto frammenti di verità che nessuno ha voglia di sentire» e minaccia il suicidio per non trasmettere il suo debito agli eredi. Benvenuto nel club dei perseguitati della giustizia, caro dottor Sabella. Benvenuto nel mondo reale, dove la verità giudiziaria e quella storica viaggiano su linee parallele per non incontrarsi mai. Il suicidio è roba da vigliacchi, non le farebbe onore dopo 17 anni a rischiare la pelle in prima linea e sarebbe un danno allo Stato ben superiore del milione di euro che ingiustamente le chiedono. Lei è vittima di un sistema sui cui la magistratura ha costruito la sua fortuna. A farsi da parte, sperando che lei ne converrà, dovrebbero essere altri. I magistrati che, come diceva Giovanni Falcone, «vogliono far politica attraverso il sistema giudiziario». Quelli che hanno un rapporto malato con i giornalisti, diventati tristi caselle postali più o meno consapevoli delle ipotesi accusatorie, anche delle più strampalate, che sono servite a far condannare altri innocenti come lei. Come nel caso di Enzo Tortora, appena 30 anni fa. Perché se sposi in pieno la linea della Procura e ti allinei sei un cronista, altrimenti sei uno che rovista nel torbido. Quelli che non si possano mai criticare, neanche quando sbagliano, pena i risarcimenti che stanno mettendo in ginocchio i quotidiani e i pochi giornalisti liberi rimasti in giro.

Per fortuna o purtroppo adesso se n'è accorto anche lei.

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