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Cassazione in campo: "Palamara va sospeso da stipendio e funzioni"

Il Pg chiede la sanzione più dura per l'ex leader dell'Anm. Conte: dai giudici reazione corporativa

Cassazione in campo: "Palamara va sospeso da stipendio e funzioni"

Fino a un mese fa si davano del tu, «ciao Riccardo», «ciao Luca», si incontravano, parlavano di inchieste e di nomine. Quando non potevano vedersi, Riccardo rassicurava l'altro tramite amici comuni, «dì a Luca di stare tranquillo». Riccardo è il magistrato più importante d'Italia, il procuratore generale della Cassazione Riccardo Fuzio. Luca è Luca Palamara (nel tondo), boss dell'Associazione nazionale magistrati, uomo di potere, di correnti, di trame, investito in pieno dall'inchiesta della procura di Perugia sul marcio all'interno del Csm. Il 12 giugno - ma lo si scopre solo ieri - Fuzio ha chiesto per Palamara il provvedimento più pesante (manette a parte) che possa toccare a un magistrato: la sospensione dalle funzioni e dallo stipendio senza aspettare l'esito del procedimento disciplinare, una misura con effetto immediato che si applica solo nei casi in cui gli indizi di colpevolezza sono così eclatanti da non consentire che una toga continui ancora per un solo istante ad amministrare la giustizia. Una misura draconiana, esemplare. Se non fosse che nel frattempo sono venute alla luce le intercettazioni che raccontano della vicinanza tra Fuzio e Palamara, tra accusato e accusatore.

D'altronde nel dicembre 2017 Fuzio venne nominato procuratore generale grazie al voto decisivo di Unicost, la corrente di Palamara. E il presidente della commissione incarichi direttivi del Csm che scelse Fuzio era il medesimo Palamara, Magistrati che fino a ieri andavano a braccetto, ora si trovano sui lati opposti della barricata, in un «si salvi chi può» di cui per ora non si vede la fine.

Palamara, attualmente pubblico ministero a Roma, dovrà comparire il prossimo 3 luglio davanti alla commissione disciplinare del Csm, chiamata a decidere sulla richiesta di levargli la toga e lo stipendio. Sarà la seconda volta in cui l'uomo-chiave dello scandalo potrà offrire la sua versione, dopo l'interrogatorio reso il 31 maggio davanti alla Procura di Perugia che lo indaga per corruzione. Quel venerdì, Palamara spiegò ai colleghi che lo accusavano di essere stato perfettamente al corrente che nel suo telefono era stato inoculato un virus che raccontava tutto in diretta alla Guardia di finanza, e spiegò di avere continuato tranquillamente a parlare con tutti «perché non ho niente da nascondere». Rivendicò la correttezza del suo operato e fece capire che il vero bersaglio del complotto di cui si sente vittima è nientemeno che il presidente della Repubblica. Insisterà sulla stessa linea davanti al Csm il 3 luglio?

Il problema è che a questo punto la musica è cambiata. Le colpe disciplinari di Palamara, quelle che secondo Fuzio rendono impossibile che continui a fare il pm, sono ben più evidenti di quelle penali. I 40mila euro di tangente che gli vengono attribuiti da quando lo scandalo è esploso sono per ora poco più che un'ipotesi. Ma non sono ipotesi la sua incredibile contiguità e confidenza con personaggi come Luca Lotti, l'ex ministro super renziano di cui la stessa Procura di Palamara ha chiesto il rinvio a giudizio per l'affare Consip, e con il quale Palamara tiene non solo incontri notturni per pianificare la spartizione delle poltrone ma offre sponda anche alle trame contro Paolo Ielo, il procuratore aggiunto che del rinvio a giudizio di Lotti è stato il principale responsabile.

La cacciata (provvisoria) di Palamara dalla magistratura appare inevitabile, anche perché a decidere sarà la commissione disciplinare del Csm che è stata investita in pieno dallo scandalo, e che dopo le dimissioni del suo membro Corrado Cartoni non vuole certo essere sospettata di eccessi di indulgenza. Il rischio è semmai che la condanna di Palamara si trasformi in un gesto simbolico, con l'ex leader di Unicost trasformato in capro espiatorio di uno scandalo che ha responsabilità ben più vaste. E al quale una parte importante di magistratura ha risposto «con spirito corporativo»: a dirlo è una fonte elevata, il premier Giuseppe Conte.

Cui le reazioni di tanti giudici sono sembrate finalizzare a «difendere in modo generico le istituzioni» e non a fare davvero pulizia.

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