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Charlie Hebdo, tre anni dopo Seppellito da islamici e buonisti

Finita la retorica (e con 17mila jihadisti in libertà) i morti sono diventati scomodi. Così la Francia ha piegato la testa

Charlie Hebdo, tre anni dopo Seppellito da islamici e buonisti

Da «Je suis Charlie» a «Charlie adieu». Son passati tre anni e l'ipocrisia ha calato la maschera. Dei milioni di francesi scesi in piazza tre anni fa sull'onda del refrain tanto insignificante quanto «politicamente corretto» del «Je sui Charlie» ne son rimasti ben pochi. Il giornale che all'indomani della strage vendette tre milioni di copie oggi stenta a pagare il milione e mezzo di euro spesi ogni anno per difendere sede e redattori. Ma il problema non sono le vendite. Il problema vero è l'indifferenza di pubblico e governo. «Celebrazioni discrete» - ripetono dall'Eliseo. E infatti l'Emmanuel Macron arrivato a deporre un mazzo di fiori davanti allo striminzito capannello di parenti e colleghi delle vittime riunito sul luogo della strage si guarda bene dal pronunciare mezza parola. Del resto che può dire. Dei dodici morti di quel 7 gennaio 2015 - e degli altri 241 caduti per mano del terrorismo islamista nei tre anni successivi - la Francia non sa che farsene. Potendo li rimuoverebbe dalla memoria. Sono morti ingombranti, cadaveri imbarazzanti. Messi tutti in fila contraddicono l'allegra e rassicurante banalità con cui, dopo ogni attentato, s'è ripetuto, certificato, garantito che l'Islam non c'entra perché è «una religione di amore e pace». Sarà anche vero, ma a fronte di quell'assoluzione di massa la Francia fa oggi i conti, secondo le più accreditate stime d'intelligence, con almeno 17mila jihadisti salafiti impiantati sul proprio territorio. Diciassettemila residenti, al netto di quelli di ritorno dalle terre dell'Isis sconfitto, che considerano le leggi e il diritto francese un abominio e vorrebbero imporre non solo a se stessi, ma a tutta la popolazione la «sacra» legge del Corano. Diciassettemila fanatici contro i quali gli ex virtuosi del «Je suis Charlie» non proferiscono parola. Quando non preferiscono blandirli e giustificarli. «Abbiamo l'impressione che la gente tolleri sempre meno Charlie. Se facessimo un'altra copertina con Maometto chi ci difenderebbe?» si chiedeva già un anno fa Laurent "Riss" Sourisseau, il direttore succeduto a Stephane Charb Charbonnier assassinato nella mattanza del 2015. Un pessimismo fattosi oggi ancor più amaro. «Tre anni dopo l'attentato contro Charlie Hebdo la libertà d'espressione diventa un prodotto di lusso» twittava due giorni fa lo sconsolato Riss. La prima a gridarlo è stata Zineb El Rahazoui, la giornalista marocchina di Charlie Hebdo sopravvissuta alla strage perché quel 7 gennaio di tre anni fa era ancora in vacanza nel suo paese. «Charlie è morto il 7 gennaio 2015, ormai il giornale segue la linea editoriale che gli islamisti volevano imporci prima degli attentati da allora non abbiamo più disegnato Maometto» spiegò un anno fa la giornalista annunciando le sue dimissioni. Dimissioni obbligate per una figlia dell'Islam che dopo quella strage e quelle successive ha inutilmente tuonato contro chi parlava di «islamofobia», ha inutilmente ricordato come l'islam «reale» non sia quello evocato dai benpensanti del politicamente corretto, ma quello praticato in paesi come l'Arabia Saudita dove «prima di tutto non puoi esser libero». «Dove come ripete in ogni intervista la El Rahazaoui sfidando le minacce di morte - la femmina è inferiore all'uomo. Dove non hai diritto d'esser omosessuale. Dove se mangi in pubblico durante il Ramadan vai in prigione». Verità troppo imbarazzanti per una Francia corretta e benpensante che tre anni dopo preferisce non sapere.

O, ancor meglio, dimenticare. Charlie adieu!

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