Cronache

Ma il cliente ha ragione anche se ha torto? La ribellione degli chef

Fenomenologia del commensale bizzarro. Che fare se vuole il formaggio sulle vongole?

Ma il cliente ha ragione anche se ha torto? La ribellione degli chef

I l cliente ha sempre ragione. Almeno fin quando non ha torto.

Ovvero, fino a che punto uno chef deve assecondare le richieste dei suoi ospiti, anche le più assurde? Deve accettare di mettere su richiesta il parmigiano sugli spaghetti alle vongole? Deve all'occorrenza mettere la panna nella carbonara e assecondare l'americano che chiede le polpette negli spaghetti, e le abiette fettuccine all'Alfredo? Può mettere un limite ai capricci del cliente, obliterando piccole modifiche ma rifiutando opzioni che stravolgano la natura stessa del piatto? Stabilito che andare in un locale è come recarsi in visita nell'abitazione di un cuoco, questa circostanza presuppone maggiori obblighi di cortesia da parte del padrone di casa o da parte dell'ospite? E soprattutto: i soldi, oltre alla felicità, dànno anche il diritto di metter bocca nel modo in cui un professionista svolge il suo lavoro?

«Il cliente ha sempre ragione ma c'è un limite - ci dice lo chef Bruno Barbieri - . Molti clienti ci giocano sapendo che lo chef ha un rispetto quasi reverenziale per il cliente. Qesto non vuol dire che non ci possa essere un confronto tra chef e cliente. Poi però ci sono i furbettini che fingendosi insoddisfatti scroccano pranzi e cene. Il limite sarebbe l'educazione se essa non appartenesse al passato».

Un paio di anni fa fece scalpore il caso di Maurizio Landi, uno chef bolognese che dopo aver lavorato a lungo nel capoluogo emiliano si era trasferito in Francia, nella regione del Beaujolais, dove era stato assunto da un bistrot di una locanda. Sembrava un sogno, divenne un incubo. Perché al Landi i clienti chiedevano la pasta non esattamente al dente e soprattutto che il ragù alla bolognese, piatto culto dello chef, venisse servito a condire gli spaghetti e non le tagliatelle come da «disciplinare» familiare. Lui si rifiutò di accontentarli e per questo venne licenziato per poi ammettere che forse sì, era stato un po' troppo integralista.

Il fatto è che chi cucina per lavoro pensa di fare cultura e non solo di nutrire il suo cliente. Ambisce a elevarlo, a insegnargli qualcosa, a trasferire parte della sua tradizione e a volte non accetta confrontarsi con la legge del mercato, che impone talora qualche compromesso. Di recente ci è capitato di rivedere una vecchia puntata di «Quattro ristoranti» di Alessandro Borghese ambientata a Milano. Si sfidano quattro titolari di locali specializzati nella carne. A un certo punto uno dei concorrenti chiede al padrone di casa del momento - un toscanaccio di quelli per cui sotto le tre dita è tutto carpaccio - di servirgli una bistecca di rubia gallega (una pregiatissima razza spagnola di manzo) dell'altezza di «massimo tre centimetri». Lo chef si rifiuta facendo intendere che in questo modo rovinerebbe la carne e il collega deve cambiare ordinazione. E al momento del punteggio la cosa penalizza lo chef integralista, che finisce ultimo per pochi punti.

C'è poi un'altra questione: quanto conta l'importanza di uno chef nella possibilità di imporre delle modifiche ai piatti? Davvero qualcuno andrebbe da Massimo Bottura e gli chiederebbe che uno dei suoi piatti cult, La Parte Croccante della Lasagna, che gioca tutta sull'effetto bruciacchiato del tradizionale primo al forno, venga fatto «non troppo bruciacchiato»? Che cosa risponderebbe quello che è considerato il migliore chef del mondo? E se la celebre pizza «frisellata» di Carlo Cracco ha suscitato molte polemiche per la sua eterodossia, nessuno comunque si sognerebbe di pretendere da lui una margherita alla Sorbillo. Il menu è quello, se non ti sta bene accòmodati altrove.

Poi ci sono i casi estremi: lo chef che a Mosca si rifiuta di servire carne ben cotta a una donna: lei è incinta non vuole cibo crudo, il ristorante risponde «niet» perché là la bistecca si fa solo al sangue. Il ristorante losangelino che (era il 2011) scontenta una Victoria Beckham allora incinta che pretende la salsa dell'insalata a parte al grido di «piatti chiari, amicizia lunga».

«Ricordo ancora - scrisse qualche tempo fa il delegato Slow Food Marco Contursi sul sito di Luciano Pignataro - quando, adolescente, mangiavo la carne cottissima e come in un primo momento ci rimasi male quando uno chef argentino, qui in Italia si rifiutò di farmi un filetto cotto. Disculpe, ma troppo cotto non è più un filetto. Passato il primo smarrimento, lo provai e mi resi conto che era molto più buono di come l'avevo mangiato fino ad allora. Quel giorno, imparai a mangiare la carne».

Troppo bello per essere vero?

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