Cronache

Corano, jihad e altri "fratelli" Così Amri tramava in cella

Il killer del tir è passato da un carcere siciliano all'altro: "Voleva farsi trasferire". Le indagini sui compagni

Corano, jihad e altri "fratelli"  Così Amri tramava in cella

«Il mio tappetino e il mio Corano». Li richiede Anis Amri, l'attentatore dei mercatini di Natale a Berlino, ucciso in un conflitto a fuoco con la polizia a Milano, non appena mette piede nel carcere Pagliarelli di Palermo, dove sosterà per circa 5 mesi.

Non è una richiesta comune di tutti i detenuti di fede islamica, per cui per gli investigatori che stanno ricostruendo il suo percorso di radicalizzazione avvenuto in Italia, come sostengono i suoi familiari, rappresenta un elemento di non poco conto.

«Era schivo, solitario e preoccupato per la sua incolumità». Lo ricordano così dal carcere di Enna, dove era stato rinchiuso per avere picchiato il custode della struttura di accoglienza in cui era ospite a Belpasso (Catania) e avere dato fuoco al centro protestando per le lungaggini delle pratiche di riconoscimento dello status di rifugiato e per la «scarsa» qualità di vitto e alloggio. A Enna Anis ha mantenuto un profilo basso. Col senno di poi, il non avere mai dato segni di violenza, in discrasia con l'indole mostrata fuori dalla casa circondariale con l'aggressione al custode, potrebbe essere parte di un piano. Alcune fonti investigative ne sono convinte.

L'atteggiamento dimesso di Anis potrebbe essere stato finalizzato al conseguimento di un trasferimento dall'entroterra siciliano, dove pochi sono i contatti con i «fratelli» islamici, a carceri più grandi. E Anis ci riesce. Da Enna, infatti, per la sua incolumità, viene trasferito al carcere di Sciacca, ma è ad Agrigento, dove entra nel gennaio 2014 per restarvi 9 mesi, che affiora la sua vera personalità. Anis non si nasconde più e arriva a minacciare di morte un detenuto straniero di fede cristiana perché si converta all'islam. Eccolo, quindi, approdare al Pagliarelli, dopo gli ennesimi episodi di sopraffazione di alcuni detenuti. E qui, al suo curriculum di aggressività di tutto rispetto si aggiungono rapporti disciplinari per i comportamenti violenti e per essere in possesso di un taglierino ricavato artigianalmente con la lama del rasoio.

Il suo atteggiamento non fa presagire nulla di buono. Si accompagnava solo a detenuti stranieri di fede islamica, segnale che ha fatto scattare l'attenzione della polizia penitenziaria già avvertita da quella di contrada Petrusa. E viene segnalato al Nucleo investigativo centrale per essere monitorato costantemente. Cosa che al Pagliarelli avviene.

Qui ha a che fare con al massimo una decina di detenuti tra tunisini, marocchini, croati e slavi per lo più condannati per spaccio di droga e reati connessi all'immigrazione clandestina. Su di loro e i loro contatti si sono concentrati i controlli degli investigatori. L'ultima tappa in carcere è all'Ucciardone, a Palermo. Anche qui «frequentava solo islamici». Lo dicono fonti investigative che non escludono un indottrinamento prima dell'arrivo a Lampedusa nella primavera del 2011, anche se, dai dati emersi, apparirebbe più verosimile un accostamento all'Islam radicale tra Lampedusa e Belpasso. Non è la prima volta che immigrati salvati in mare dal dispositivo dei soccorsi siano indagati perché in possesso di foto in mimetica e kalashnikov. Sono diverse le inchieste aperte dalle procure di Catania e Palermo.

Oltre ad Agrigento e a Palermo, tappe fondamentali nella vita di Anis, altro tassello importante di un'inchiesta su cui vige il massimo riserbo potrebbe essere Lampedusa.

Qui Anis non sarebbe arrivato solo, ma con altri «fratelli» su cui si concentrano gli sforzi degli investigatori.

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