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Il Corriere cacciò Montanelli. E Ottone si pente 40 anni dopo

Lo storico direttore del quotidiano e quel licenziamento del 1973 che cambiò il giornalismo italiano

Il Corriere cacciò Montanelli. E Ottone si pente 40 anni dopo

Una frase, quarantun anni dopo: «Guardando retrospettivamente forse fu un errore licenziarlo». Parla Piero Ottone, direttore del Corriere della Sera nell'Italia della tensione e dell'avanzata rossa. E dice due cose: che Indro Montanelli non se ne andò dal Corriere sbattendo la porta, «come a volte si dice», ma venne licenziato in tronco; e che quel licenziamento fu uno sbaglio. Ottone lo confessa in un passaggio di una lunga intervista a Repubblica . E accetta poi di buon grado di tornare col Giornale sul «caso Montanelli». Rivelando di non essere il solo a nutrire oggi dei ripensamenti su come il grande inviato venne cacciato da via Solferino. «Poco tempo fa - dice Ottone - ne ho parlato con Giulia Maria». Ossia con Giulia Mozzoni Crespi, che in quegli anni era insieme a Agnelli e Moratti la proprietaria del Corriere . «Con lei Montanelli era stato pesante, l'accusa di essere priva di buon senso e di intelligenza, e nei salotti milanesi aveva avuto nei suoi confronti parole fuori dal lecito. Ma adesso Giulia Maria mi ha detto: se tenevamo Montanelli era meglio, perché era una forza per il giornale». Senza quell'errore, la storia del giornalismo italiano sarebbe stata diversa.

Era il 1973. Sulla prima pagina del Corriere, Ottone portava gli «scritti corsari» di Pier Paolo Pasolini. Una scelta simbolica, la grande borghesia che apriva il suo quotidiano ai fermenti - culturali, se non politici - figli dell'autunno caldo. Tenere Montanelli al Corriere non sarebbe servito anche a bilanciare quelle aperture? «Non c'era niente da bilanciare, tantomeno con Montanelli. Su questo si è fatta un po' di confusione. Indro non mi accusava di fare un giornale troppo di sinistra, ma di fare un giornale senza una linea. In uno dei suoi ultimi articoli, nella rubrica del dialogo con i lettori, scrisse che bisognava coinvolgere nel governo non i socialisti, di cui non si fidava, ma i comunisti. E seppi che diceva in giro: vediamo se Ottone mi pubblica anche questo!».

La goccia finale, come è noto, fu l'intervista di Montanelli al Mondo in cui invitava la borghesia lombarda ad abbandonare il Corriere . «A quel punto il licenziamento fu inevitabile. Se non lo avessi licenziato, avrei dovuto fare i conti con la redazione, che soprattutto nei suoi componenti più giovani non amava affatto Indro. Sarei stato considerato corrivo. Era come se un ingegnere dell'Alfa Romeo avesse dichiarato pubblicamente che le Alfa erano delle cattive automobili. Non solo Giulia Maria, ma anche Agnelli e Moratti furono d'accordo da subito con la mia decisione. D'altronde era chiaro che se non lo avessimo licenziato in quella occasione, nel giro di un paio di mesi Montanelli ne avrebbe fatta un'altra delle sue». Vi aspettavate l'esodo di diverse firme importanti del Corrier e che seguirono Montanelli? «Lo avevamo messo in conto».

Eppure oggi, a novant'anni, dalla casa di Camogli, Ottone dice che sì, un'altra scelta sarebbe stata possibile e forse giusta. «Avremmo potuto chiudere gli occhi». Lo dice, e questo è forse l'aspetto più interessante, senza indulgenze particolari verso la memoria di Montanelli: che «era senza dubbio il più grande giornalista italiano», ma «covava, senza dirlo forse neanche a se stesso, il desiderio di fare il direttore del Corriere , e questo lo portava a fare la fronda a tutti i direttori. Fece lo stesso con me, che pure ero suo amico: ma lo fui solo fino al giorno della mia nomina. Iniziò a contestarmi, ma mai a viso aperto. Non ci fu una sola volta che mi abbia detto in faccia che non gli piaceva il giornale che facevo. Ma lo diceva agli altri, e ovviamente io lo venivo a sapere».

È chiaro che non si lasciarono bene, e Ottone non cerca nemmeno pacificazioni post mortem. Lo aveva scritto, d'altronde, qualche tempo fa in una lettera a Mario Cervi: «Montanelli era buono d'animo e generoso. Fra le sue virtù non c'era però la lealtà verso il direttore pro tempore». Già in quella lettera, Ottone descriveva il giorno della cacciata, a casa del critico musicale Greco Naccarato: «Fu sorpreso, addolorato e ferito». Oggi, quarantun anni dopo, Ottone ammette di avere sbagliato.

Forse.

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