Politica

La corruzione è il dazio da pagare: fa di Roma la capitale del mondo

Ingoia puri e impuri da sempre, non esiste incorrotto

di Aurelio Picca

L e battutacce i romani le fanno ancora. A volte meno sprezzanti perché stanno un po' rincoglioniti, arrabbiati, rassegnati e un tantinello avviliti. O magari per non smentirsi ci pensano tre secondi in più. In altri tempi se al bar avessero fatto il nome del pentastellato Lanzalone (coinvolto nella questione del nuovo stadio con Ferrari e Parnasi e chi altri non si sa), qualcuno avrebbe subito detto: «Ma Anzalone non è più il presidente!», alludendo a Gaetano Anzalone patron della Lupa calcio tra il mitico Alvaro Marchini e Dino Viola. Anzalone che dovette subire all'epoca la ferocia del barbaro Chinaglia e della sua Lazio scudettata. Mi è venuto questo attacco per non ripetere il solito «mortacci» (che fu anche un film di Sergio Citti) e per non timbrare il cartellino facile di «Roma corrotta». Punto e bonasera ai sonatori. Del resto una città che è nata da un fratricidio (Romolo uccise il suo gemello Remo per diventarne il primo Re) e sul «Ratto delle sabine» volgarmente stupro delle donne della provincia di Rieti come era possibile farsi illusioni sulla natura predatoria, divorante, corruttrice, perversa della città eterna?

A Roma non arriva anima pia che non venga tentata dal demonio. Lo sa bene la chiesa stessa. Nella Massima Casa di Dio il Diavolo tentatore è facilissimo che si aggiri nei dintorni. Tutto il mondo e i nuovi turisti globali con fagotto di plastica e ciavatte, non sanno che la Bellezza di Roma è un canto di sirena che ti cattura per poi sbranarti, deviarti, renderti complice. Infatti la seduzione di Roma sta nella lusinga della musica che sprigiona, non nello splendore dei suoi cocci e delle seppur sublimi rovine. Roma non ha ereditato la grazia greca. Da ermafrodito affamato di piacere e conquiste ha perfino rubato ai sanniti lo sberleffo del «giogo» (costringere i perdenti a inchinarsi sotto una lancia al cospetto dei vincitori) dai romani stessi subìto alle Forche Caudine. Roma si pappa tutto da sempre.

Quelle bestie che la fondarono non si fermarono mai. Combatterono sempre, soprattutto con le cattive. A memoria se la spassò un po' giusto Augusto, Tiberio, Adriano, Eliogabalo A Roma non esiste incorrotto. Non è questione di colpa, non c'entrano i romani. È il dazio che la città paga (rincartando, strusciando, sbeffeggiando, indietreggiando cinica e astuta) per rimanere capitale del mondo. Sembra assurdo ma è così. Sono assillato dal pensiero che Virginia Raggi sia una sopravvissuta allo sbavamento. Mi appare come una sfuggita al Ratto sabino. Sarà per quel suo corpo esile, quasi trasparente, che Roma non la arpiona. Sembra una vestale che vede sgozzare il sacerdote nel suo tempio senza che goccia di sangue la imbratti.

Credo che Roma quando era solo plebea e «capitale di niente» come scrivo nel mio romanzo, fosse meno accecata dall'ingoiare puri e impuri. E continuo a sostenere che la sua «grandezza» del tutto noncurante e gettata in mezzo alle ortiche potrebbe essere recuperata o rinascere se non fosse più «Capitale». A Roma basta il Papa. La Capitale dovrebbe essere Napoli. Sono convinto che se si alleggerisse il peso tornerebbe da moderno film «neorealista». Ho l'impressione che più sia pressata e sotto l'occhio del ciclone e più voglia divorare. Alla fine divora se stessa. Proprio questa città che continua a stare sul chi va là soltanto con tre prototipi.

Il primo se si mostra da barbaro incappucciato, irriconoscibile e muto (allora nessuno alle spalle gli dice «Va a morì ammazzato»); il secondo dovrebbe vestire i panni di un criminale a mano armata alla stregua dei già noti «Marsigliesi» (rubo, sparo, e non investo in potere), il terzo non può che essere il Marchese del Grillo il quale, per bocca di Alberto Sordi, dice ai suoi servi e concittadini: «Mi dispiace, ma io so' io e voi non siete un cazzo!».

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