Cronache

"Così uccidemmo Sana". Ma il giudice assolve padre, madre e fratello

La 25enne bresciana si oppose al matrimonio combinato. Il papà confessò, poi la ritrattazione

"Così uccidemmo Sana". Ma il giudice assolve padre, madre e fratello

Il padre confessa di «aver strangolato la figlia», l'autopsia dimostra che alla «vittima era stato spezzato l'osso del collo», un medico ammette di «essere stato pagato per falsificare il certificato di morte». Ma per la giustizia (giustizia?) pachistana «non ci sono prove che Sana sia stata uccisa». E così il tribunale (tribunale?) ha dato credito all'iniziale tesi sostenuta dalla famiglia di Sana Cheema, la 25enne originaria del Pakistan ma cresciuta a Brescia: «Sana è morta per un malore. L'osso del collo rotto? Deve aver sbattuto la testa contro il bordo del letto o il divano».

Eppure, perfino alla polizia pachistana, era bastata una rapida inchiesta per scoprire come la ragazza non fosse «deceduta per cause naturali»: virgolettato scritto sul certificato di morte redatto da un medico corrotto dai parenti della giovane, documento che aveva permesso al padre di Sana di seppellire immediatamente il corpo della figlia, nel tentativo di occultare l'omicidio.

Un comportamento più che sospetto subito denunciato dagli amici di Sana: una campagna di indignazione giunta fino in Pakistan dove venne disposta l'autopsia che rivelò una realtà ben diversa da quella ufficiale: Sana era stata ammazzata a seguito di un complotto di famiglia.

Lo stesso papà di Sana, messo alle strette, confessò (insieme col figlio) il delitto, «giustificandolo» con una «questione di onore». Qual era la «colpa» di Sana? Essersi permessa di rifiutare il matrimonio combinato che la famiglia voleva imporle. Il «no» della 25enne era stato ritenuta un'«onta» da lavare col sangue. Soprattutto dopo che la famiglia aveva saputo del fidanzamento con un italiano. Di qui la decisione di massacrare la carne della propria carne.

Come? Spingendo la ragazza a lasciare Brescia e raggiungere il Pakistan con un inganno infame: «Si sposa tuo fratello, non puoi non partecipare alle nozze». Sana accetta, e così facendo firma la sua condanna a morte. Dal suo viaggio nel distretto di Gujrat non tornerà più.

Sana era perfettamente integrata a Brescia dove aveva compiuto gli studi, per poi trovare lavoro a Milano: i genitori avevano vissuto con lei per anni, ottenendo anche la cittadinanza italiana, successivamente si erano spostati in Germania e infine avevano fatto ritorno nella loro casa nel Punjab; da qui padre e fratello (con la complicità della madre e vari altri parenti) organizzano nei dettagli la sua «punizione esemplare». Eseguita senza pietà.

La famiglia Cheema concorda una versione che all'inizio sembra reggere, ma poi crolla sotto il peso delle incongruenze. La polizia locale svela i depistaggi e ricostruisce la trama criminale. Nel frattempo il padre e il fratello di Sana ritrattano la loro confessione e si presentano in udienza dichiarandosi «innocenti». Probabilmente capendo che quella toga che deve giudicarli non è altro che l'ologramma di una «cultura» che - al di là delle leggi e del diritto - vuol affermare il principio della supremazia barbara dell'uomo sulla donna: a maggior ragione se quell'uomo è un padre e quella donne è una figlia «rea» di non ubbidire agli ordini del capofamiglia. Anche la mamma di Sana che, teoricamente, dovrebbe difendere la figlia diventa complice e non fa nulla perché l'esecuzione abbia corso. Undici le persone che parteciparono al martirio della giovane. Tutte finite alla sbarra davanti al giudice (giudice?) Amir Mukhtar Gondal. Ieri, dopo tre mesi di processo (processo?), è arrivata la sentenza. Incommentabile.

Ora undici assoluzioni solo lì a dimostrare che - come postato dal ministro Salvini - «se questa è la giustizia islamica, c'è da avere paura».

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