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Dalle botte in via Bellerio a "mano libera" agli agenti

Venti anni fa le forze dell'ordine erano il nemico, oggi i poliziotti sono ospiti d'onore a Pontida

Dalle botte in via Bellerio a "mano libera" agli agenti

Milano - Dalle forze indipendentiste alle forze dell'ordine, con i sindacati di polizia ospiti d'onore a Pontida e l'impegno di «mani libere» per polizia e carabinieri quando al governo ci sarà la Lega. È uno dei nuovi aspetti del Carroccio salviniano, una relativa svolta nella storia leghista segnata specie nei primi anni da un rapporto spesso conflittuale col braccio armato dello Stato oppressore. «Se Roma vuole utilizzare la forza, se mandano i carabinieri contro la Padania, è finita. Ma è finita per loro, perché sono i più deboli ruggiva Umberto Bossi nel '97, il periodo d'oro della Lega antisistema - La polizia conta solo su 300mila persone, la Padania, invece, è un popolo sterminato. Basta che non paghiamo più le tasse e sono spacciati». Nel '92, appena sbarcati in Parlamento, un gruppo di senatori della Lega - primo firmatario il capogruppo Speroni - denunciò in una interrogazione parlamentare un articolo apparso sulla rivista dell'Arma, Il Carabiniere, con il quale «prendendo a pretesto la difesa dell'unità italiana si indirizzano pesanti avvertimenti nei confronti della Lega Nord e della sua linea politica, che destano la preoccupazione che nell'Arma possano esistere frange propense ad interventi illegittimi», intesi contro il Carroccio. Il leghista Boso chiederà di «sciogliere immediatamente Sisde e Dia, ancora fedeli a Craxi, Cossiga e alla massoneria». Il partito, comunque, poteva contare - garantì Bossi, non si sa bene su quali basi - su «300mila uomini, 300mila martiri, pronti a battersi» contro polizia e carabinieri italiani. Per difendere gli allevatori il quartier generale della Lega non aveva problemi ad invitare tutti i militanti «a schierarsi con determinazione al fianco degli allevatori padani contro le azioni oppressive della polizia italiana». Ai primi dirigenti della Lega Lombarda, alla fine degli anni '80, capitava di essere chiamati dal prefetto per fornire spiegazioni, come accadde a Roberto Castelli, futuro ministro leghista: «Mi convocò il prefetto di Lecco - ha raccontato nel suo libro - e mi disse: So che lei è stato nominato presidente provinciale della Lega Lombarda, lì dentro c'è gente poco raccomandabile. Guardi che vi teniamo d'occhio». Più volte la Digos ha consegnato rapporti alle Procure sulle camicie verdi e sulle iniziative leghiste alternative alle forze dell'ordine (tipo le ronde padane). Ma la Digos è stata protagonista dell'episodio più emblematico nel settembre del '96: l'irruzione negli uffici di Via Bellerio da parte della Digos per una perquisizione ordinata dal procuratore di Verona, Guido Papalia, con la Lega accusata di attentato all'integrità dello Stato e di aver organizzato un'associazione paramilitare, le camicie verdi. Bossi, Maroni, Calderoli, Borghezio, Martinelli e Caparini provarono a impedire l'irruzione dei poliziotti, volano pugni, schiaffi, insulti. Maroni «afferra per le gambe prima il sovrintendente Mastrostefano, cercando di trascinarlo a terra, e quindi l' ispettore capo Amadu intervenuto in aiuto del collega», si legge nel rapporto della Digos. Bossi strappa «il giubbino e la giacca d'ordinanza» di un ispettore mentre Caparini «ingaggia una collutazione». Per tutti anche il reato di oltraggio per aver «inveito con le espressioni fascisti, mafiosi e Pinochet» all'indirizzo dei poliziotti. Maroni, viene portato via in barella con il collare, i pantaloni strappati e tutta la camicia sbrindellata. E pure Salvini, più avanti, chiederà al questore di Milano di «smetterla con le menate mentali sulle parole e sgombrare i campi nomadi abusivi».

Ma era ancora la Lega di dieci anni fa, un secolo.

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