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Democratiche o di regime: il fascino marziale delle parate

Trump vuole una sfilata più fastosa di quella francese. Perché il patriottismo passa, ma lo spettacolo rimane

Democratiche o di regime: il fascino marziale delle parate

Non è solo una questione di bottone ma anche di bottoni. Il mio è più grosso del tuo, aveva risposto a Kim, riferendosi a quello nucleare. Ora, i bottoni, quelli militari, ma anche le mostrine, le medaglie, i fregi, li vuole più luccicanti di quelli di Macron. Perchè impressionato dalla parata di missili, pennacchi e carriarmati che ha visto sfilare lungo gli Champs Elysees, il 14 luglio scorso a Parigi, Donald Trump ha deciso che ne vuole una uguale lungo Pennsylvania Avenue, i dieci chilometri di strada che collegano la Casa Bianca al Campidolglio. Anzi, più bella, più grande, più cattiva. Migliaia di divise luccicanti che sfilano, ordinate, massicce, bellissime e il commosso saluto del popolo ai gloriosi vessilli. Il Pentagono ha subito risposto signorsi. Il Washington Post racconta che The President, riunito nella tank del Pentagono con il ministro della Difesa Jim Mattis e il capo dello Stato maggiore congiunto, generale Joseph F. Dunford Jr, abbia dato l'ordine: la forza deve dare anche spettacolo, facciamo vedere chi siamo. La Casa Bianca, per bocca della portavoce Sarah Sanders Huckabee, conferma con toni già da parata: «Il presidente Trump sostiene in modo straordinario le truppe americane che ogni giorno rischiano la vita per tenere il nostro Paese al sicuro». Per cui «ha chiesto al dipartimento Difesa di valutare un evento celebrativo dove tutti gli americani possono far vedere il loro apprezzamento». É uno spreco, non serve a niente, è da mitomani hanno detto subitoi Dem. Abbiamo altre rogne, ci manca solo la smania narcisista di questo «Napoleone in divenire che è il nostro presidente» ha detto la deputata Jackie Speier. É così ma anche no. É vero che negli States l'estetica guerriera preferiscono esibirla, per esempio, nei Superbowl di football americano («è come una guerra nucleare ma non ci sono vincitori, solo sopravvissuti» esagerava Frank Gifford, ricevitore dei New York Giants). E che quelle piazze che si muovono come nel video di The Wall ricordano troppo le esibizioni muscolari dei regimi dittatoriali che si nutrono di enfasi, retorica e fanfare, a costo di sfidare il ridicolo. Raccontano che Mussolini, per impressionare Hitler, facesse sfilare le stesse truppe due volte, come se fossero una, oggi sono i soldati da parata di Kim Yo-jong a imbracciare armi giocattolo, «nemmeno gli occhiali dei soldati hanno i requisiti da combattimento» giurano gli esperti dell'intelligence americana. Gli stessi americani, quando quasi tutti i suoi ragazzi erano impegnati sul fronte afghano, non avendo più soldati da far sfilare nel Veteran Day dell'11 novembre mandarono i Boy scout.

Ma la parata ha questo di bello. É un simbolo potente del potere militare, è il patriottismo che si fa orgoglio, ma anche una coreografia che trasmette sentimento. L'espressione di un'epopea alla quale il popolo si sentiva legato da vincoli di commozione profonda ma oggi resta da vedere se il rito militare sia il più adatto per rivendicare un'identità e se il prestigio di un Paese dipenda ancora dalla sfilate in pompa magna. O se semplicemente la patria sia un concetto che si sta svuotando di significato. Ma nelle democrazie il protocollo si presta ancora, Macron insegna, ma anche il Trooping the Colours per il compleanno della Regina d'Inghilterra ai modelli monarchici e imperiali del secolo scorso per celebrare se stesso. É vero che il duca di Wellington, trionfatore di Waterloo, non le amava così come non amava i soldati, che per lui erano solo assassini bene addestrati, e che lo stesso Montanelli diceva che «sul campo di battaglia non in passerella sentivo l'orgoglio della mia divisa».

Ma l'onore, a volte, luccica anche sui bottoni.

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