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Disastri di Stato e tumori, mezzo secolo di guai

Dall'apertura a Taranto negli anni '60 una lunga serie di crisi, inchieste e decreti in extremis

Disastri di Stato e tumori, mezzo secolo di guai

Da Genova a Taranto passando per Napoli. Si può dire che l'Ilva e la sua storia abbiano davvero unito l'Italia da nord a sud alimentando la grande industria che, nel dopoguerra, ha trasformato il Paese: fabbriche, maxi produzione, occupazione. Il sogno siderurgico che ha fatto dell'Ilva il primo produttore d'acciaio d'Europa prende le mosse da Genova Cornigliano, ma è con la realizzazione del centro siderurgico di Taranto, nei primi anni Sessanta, che pone le basi per la sua grandeur: cinque altiforni, due acciaierie, parchi minerali, pontili portuali, tubifici. All'epoca la proprietà era pubblica; dell'Iri, il maggiore gruppo delle Partecipazioni statali. Poi, le grandi privatizzazioni degli anni Novanta, la consegnano (ripulita dai debiti) nelle mani della famiglia Riva che, nel 1995, batte l'offerta dei Lucchini e ci mette le mani grazie a 1.649 miliardi di lire. E pensare che il primo «atomo», la società Ilva, aveva un capitale iniziale di 12 milioni di lire.

All'inizio la nuova società è per i Riva un business rilevante. Ma, ben presto, arrivano i guai giudiziari: cause di mobbing, le prime grane ambientali. Nel 2012 vengono effettuate le prime bonifiche a Taranto. Ma non basta. Al termine di una corposa inchiesta, il gip Patrizia Todisco ordina il sequestro degli impianti dell'area a caldo di Taranto definiti «fonte di malattia e morte». Un'accusa certificata da perizie. Scattano anche i primi arresti, tra cui quelli di Emilio Riva e dei figli Nicola e Fabio. Scrivono i magistrati: «Un morto ogni tre mesi, il 25% di incremento per i tumori dei bambini, la gente che abita vicino allo stabilimento che si ammala e muore tre volte di più rispetto a quanto dovrebbe. Un avvelenamento continuo che si è protratto per anni». La situazione industriale e ambientale va di male in peggio.

E dal 2012 al 2016 i vari governi sfornano una decina di decreti per salvare la produzione. La magistratura non si ferma e nel 2013 decide un maxi sequestro ai danni dei Riva: 8,1 miliardi tra beni e conti. Poi revocato dalla Cassazione. A fine 2012 Taranto sta per chiudere ma in extremis il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano firma un decreto «Salva Ilva» invocando «l'interesse strategico nazionale» dell'azienda. A giugno 2013 il cda dell'Ilva si dimette e l'azienda resta senza guida. Il governo Letta nomina Enrico Bondi commissario affiancandogli, per la parte ambientale, Edo Ronchi. Nel 2014, con il governo Renzi, si cambia ancora. Al tandem Bondi-Ronchi, subentrano Piero Gnudi, ex presidente Enel, e Corrado Carrubba. L'azienda è in condizioni finanziarie critiche e il governo decide per l'amministrazione straordinaria che scatta a gennaio 2015. L'Ilva ha un'insolvenza di 3 miliardi. I commissari diventano tre: a Gnudi e Carrubba si unisce Enrico Laghi (oggi anche su Alitalia). L'inchiesta della Procura, andata nel frattempo avanti, approda ai rinvii a giudizio disposti dal gup: 47 in tutto.

Nel 2016 l'Ilva è in vendita. Le manifestazioni di interesse sono 29, ma alla fine resteranno in pochi: da un lato, Arcelor Mittal e Marcegaglia, dall'altro, Cdp e Arvedi a cui si aggregheranno Delfin di Del Vecchio e Jindal. Alla fine la spunteranno i franco indiani di Arcelor mettendo sul piatto 1,8 miliardi per l'acquisizione, 2,3 miliardi di investimenti, 8 milioni di tonnellate di produzione. Per i lavoratori il sacrificio più grande: si parte con 9.407 addetti (su 14.200) per arrivare, nel 2024, a 8.480. Al momento del passaggio di consegne torna alta la tensione.

I tagli sono confermati, nel numero, w si scopre che i 10mila lavoratori perderanno, con i nuovi contratti, garanzie e diritti.

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