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Donald torna nella bufera Usa. Ma i Dem rinviano l'offensiva

Il presidente a Washington dopo le accuse di Cohen e l'ombra Russiagate. Gli analisti: così si salda la sua base

Donald torna nella bufera Usa. Ma i Dem rinviano l'offensiva

Il flop del summit con Kim Jong-un. E ora pure gli strascichi di quella che è già stata definita «la testimonianza più scottante contro un presidente in carica dai tempi del Watergate». Donald Trump torna a casa con un successo in meno (niente firma sulla dichiarazione congiunta per la denuclearizzazione della Corea del Nord che pensava di avere in tasca) e una grana in più, la testimonianza del suo ex avvocato Michael Cohen, che mercoledì lo ha definito un «razzista e truffatore» in diretta tv, durante l'udienza pubblica alla Camera che ieri è proseguita a porte chiuse davanti alle commissioni intelligence dei due rami del Congresso.

«La prima udienza non ufficiale del processo di impeachment», l'ha chiamata il commentatore della Nbc Chuck Todd. E in effetti il giorno dopo l'attacco-valanga sul presidente (secondo Cohen sapeva delle e-mail hackerate ai democratici, pagava assegni per comprare il silenzio della pornostar Stormy Daniels e di altre donne, mentiva sulle trattative per la costruzione di una Trump Tower a Mosca), ora tutti si fanno la stessa domanda: è arrivata l'ora per i democratici di avviare il procedimento di impeachmnent? Il j'accuse di Cohen può segnare l'inizio della fine politica di Trump? La base democratica e qualche megadonatore liberal vorrebbero di sì, ma fra l'establishment democratico la parola d'ordine è «cautela». «Non è interessante che nessuno dalla nostra parte abbia pronunciato la parola impeachment? si chiede il deputato dem Elijah Cummings, presidente della Commissione di Vigilanza. «Proprio nessuno», sottolinea. E in effetti anche Nancy Pelosi, la Speaker finita ormai diverse volte ai ferri corti con il presidente negli ultimi mesi, prima nega di aver visto l'audizione di Cohen, poi aggiunge: «Mi preoccupo molto di più delle cattive politiche di Trump che della sua pessima personalità». Un modo per derubricare la testimonianza di Cohen al livello di sfogo personale sui punti deboli del presidente invece che elevarla a preludio di una possibile messa in stato d'accusa. «Non siamo ancora a questo punto», ammette anche Jamie Raskin, uno dei repubblicani che ha tartassato Cohen durante l'audizione, convinto che ci saranno ancora molte udienze e che «ci sono intere categorie di crimini che non sono state nemmeno menzionate» ma potrebbero portare agli affari all'estero del presidente. Il capogruppo democratico alla Camera Stent Hoyer è chiaro: «Dobbiamo aspettare il resoconto del procuratore Mueller e vedere cosa dice». Un lavoro che potrebbe arrivare in qualsiasi momento e l'unico veramente significativo per arrivare al nodo della questione: «Il cuore dell'indagine è se Trump o i suoi stretti collaboratori durante la campagna presidenziale hanno lavorato con spie russe per svendere la nostra democrazia», spiega il dem Hakeem Jeffries.

Ma a offrire, come sempre, l'interpretazione più centrata e smaliziata sul caso Cohen è l'ex consigliere di Obama, David Axelrod, uno degli analisti più lucidi della politica made in Us, che non a caso definisce la testimonianza di Cohen più una «catarsi personale, il prodotto della sua frustrazione» che un atto «in grado di incidere sulle dinamiche politiche del Paese». «Le sue dichiarazioni sarebbero state più dannose se fossero state meno personali». Mentre Trump accusa l'ex avvocato «di aver mentito al 95%, tranne quando ha detto di non avere prove della collusione tra me e la Russia», Axelrod è convinto che siano stati i repubblicani a segnare un punto dalla loro: «Sono riusciti a presentare la vicenda come un esercizio politico, cosa che spinge gli elettori a polarizzarsi e a correre ognuno verso il proprio angolo, rosso o blu.

E Trump siede lì, strapopolare con la base».

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