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Epitaffio di Marchionne: "Il Renzi che sostenevo non lo vedo da tempo"

Il numero uno Fca deluso dall'ex premier. Solo tre anni fa ne magnificava l'operato

Epitaffio di Marchionne: "Il Renzi che sostenevo non lo vedo da tempo"

C'eravamo tanto amati. La parabola discendente del personaggio politico Matteo Renzi è segnata dall'ufficializzazione del disincanto di colui che era stato uno dei più grandi sponsor dell'ex premier, l'amministratore delegato di Fca Sergio Marchionne. «Renzi mi è sempre piaciuto come persona. Quello che è successo a Renzi non lo capisco. Quel Renzi che appoggiavo non l'ho visto da un po' di tempo», ha dichiarato ieri al Salone dell'Auto di Detroit.

Non si tratta di un fulmine a ciel sereno perché poco più di un mese fa il supermanager aveva sottolineato come «abbia perso qualcosa da quando non è più premier, ma è normale». Una sostanziale bocciatura, in buona sostanza, delle scelte compiute dopo la sconfitta nel referendum costituzionale. «Se si sia comportato bene o meno non saprei dire», aveva precisato criticando soprattutto le baruffe tra il Pd e il resto dello schieramento cosiddetto progressista. «So che sta cercando di definirsi come identità», aveva chiosato definendo lo scontro nella sinistra «piuttosto penoso».

Ora se guardiamo a ciò che Marchionne aveva detto tre anni fa, all'apice del gradimento renziano, la presa di posizione di ieri non può non suscitare clamore. A margine di un convegno Italia-Usa a New York, nel febbraio 2015 dichiarò che Renzi aveva «fatto in 11 mesi quello che non è stato fatto in anni interi, sta facendo le riforme, lasciamolo lavorare e cerchiamo di non ostacolarlo». Parole che fanno breccia nel cuore del premier: a febbraio si definisce «gasatissimo dai progetti di Marchionne».

Ora ci sono due altri elementi da prendere in considerazione. Da una parte il verbale dell'audizione alla Consob dell'ingegner De benedetti che avocò a sé la paternità del Jobs Act. Dall'altro lato, l'impietosa disamina di Silvio Berlusconi. «Anch'io ho sperato che portasse novità in una classe politica stantia, aveva il 56% di fiducia e di apprezzamento ma poi, purtroppo per lui e anche per noi, il suo gradimento è al 22%». Insomma, Renzi ha deluso le speranze anche degli avversari che speravano che potesse essere un innovatore e, alla fine, ha perso anche il sostegno dell'establishment visto che l'unica riforma che ha portato a termine non era farina del proprio sacco.

Non si può non notare, infine, come la vis polemica dell'ex sindaco di Firenze, ancor più accentuata dalla campagna elettorale, non sia rassicurante per chi spera in un quadro non troppo instabile dopo il 4 marzo. «Io vorrei qualcuno che gestisca il Paese e una tranquillità economica nel contesto in cui operiamo. Sono cose essenziali», aveva rilevato Marchionne presentando il ritorno di Alfa Romeo in Formula 1.

Oggi come oggi il numero uno di Fca sembra maggiormente tranquillizzato dal taglio alla pressione fiscale deciso da Trump negli Usa dove il Lingotto ha annunciato importanti investimenti. L'Italia non ha lo stesso appeal perché il dibattito sulla flat tax viene vissuto come eretico, perché M5S e LeU hanno lasciato intendere o pubblicamente dichiarato di essere a favore della patrimoniale, perché comunque il pregiudizio anti-imprenditoriale è patrimonio comune di molte forze politiche.

Renzi, quindi, non è riuscito a ribaltare questo paradigma comune a gran parte del centrosinistra e alle forze anti-establishment. Si è smarrito in quella palude che voleva bonificare: basti pensare alla protervia con cui da Palazzo Chigi si scagliava contro la Fiom di Landini, mentre oggi il Pd di Gentiloni insegue il sindacato con le stabilizzazioni degli statali, appaltando all'«esterno» Calenda il tema dell'innovazione.

Marchionne certifica questo fallimento.

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