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Erdogan va all'incasso, Trump si intesta la pace. Ma il vincitore è Putin

L'intesa ribadisce il ruolo di Damasco. Però arriva dopo l'accordo mediato dal Cremlino

Erdogan va all'incasso, Trump si intesta la pace. Ma il vincitore è Putin

Lo Zar Vladimir Putin guarda, sorride e lascia fare. Il Sultano Recep Tayyp Erdogan si mette in tasca un accordo da spacciare alla propria opinione pubblica come una vittoria strategica su Washington. Il «re di denari» Donald Trump s'accontenta d'acquistare un'intesa di seconda mano da rivendere ai propri elettori per dimostrar loro che sanzioni e minacce economiche sono il miglior surrogato alla forza militare. Al di là delle «fate morgane» della politica, la verità è però evidente. Il cessate-il-fuoco di 120 ore concordato dal numero due della Casa Bianca Mike Pence e da Erdogan dopo quattro ore e venti minuti non vale nemmeno il tempo impiegato per discuterlo. Quell'intesa non si basa né su una specifica iniziativa diplomatica americana, né su un compromesso architettato dalla controparte. Essa rappresenta, più banalmente, la reciproca constatazione di quanto avvenuto sul terreno dopo l'accordo tra Damasco e i vertici curdi voluto e mediato da Mosca. Un accordo che ha portato al ritorno dell'esercito siriano in quelle zone del nord-est siriano controllate fino a una settimana fa dai curdi e dalle forze speciali statunitensi. La verità, al di là delle veline politiche, è insomma semplice, ma anche devastante. L'America, potenza guida della Nato, e il suo recalcitrante alleato turco alla fine di mesi di scontri sulla questione curda in Siria, accettano la soluzione imposta loro da Vladimir Putin.

Ma il loro rassegnato allineamento alle linee guida del Cremlino ha implicazioni assai più importanti. La firma di un cessate il fuoco in cui si conviene che il controllo della frontiera e dei territori nord orientali della Siria non spetta più ai curdi, ma all'esercito siriano, rappresenta la resa di chi ad Ankara e a Washington (ma anche a Riad, Doha, Parigi, Londra e Bruxelles) ha per otto, lunghi anni, sostenuto le ragioni dei ribelli e invocato la caduta di Bashar Assad.

Ma l'intesa Pence-Erdogan oltre a sancire la vittoria di Damasco, regala a Putin il ruolo di nuovo «dominus» degli assetti mediorientali. Un ruolo già riconosciutogli da un'Arabia Saudita che lunedì scorso lo ha accolto a Riad come il nuovo zar. Un ruolo confermato dal principe Mohammed bin Zayed l' uomo forte degli Emirati legatissimo a Washington che dichiara oggi di esser legato da un «profondo rapporto strategico» alla Russia e di considerarla la sua «seconda patria». Se da una parte Putin diventa, dunque, l'unico incontrastato decisore dei destini mediorientali, resta da capire cosa resti in mano al Sultano e al «re di denari». Erdogan di sicuro potrà vantarsi di aver innescato il capovolgimento di fronte che ha costretto i curdi a ritirarsi dal confine e a rinunciare alla sostanziale indipendenza garantita loro dalla presenza delle truppe americane. Facendosi carico del ritiro delle forze jihadiste da Idlib, l'ultima provincia siriana ancora occupata dai ribelli, il Sultano potrebbe ottenere, in un immediato futuro, anche il ritorno a casa di quei 3 milioni e 600mila profughi che rappresentano il suo principale problema interno. Alla fine però il suo sogno di restaurare la potenza ottomana e di estendere la propria autorità da Ankara al resto del Medio Oriente finisce definitivamente archiviato. E alla lunga anche il ritorno in Siria dei migranti e la pretesa vittoria sui curdi potrebbero non bastargli a contenere la rapida erosione del suo consenso interno. Trump può, invece, tornare a parlare allo zoccolo duro del suo elettorato rivendicando, in vista della prossima campagna elettorale, il rispetto della promessa fatta nel 2016 di riportare a casa i soldati dalla Siria e di rinunciare alle guerre lontane per sostituirle con la forza dell'economia.

Ma verità è che l'America First da lui sognata e voluta è oggi sempre più isolata e lontana dal resto del mondo.

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