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Ergastolo al boia dei Balcani: Mladic firmò un "genocidio"

Al comando dell'esercito serbo-bosniaco, l'ex generale ordinò la strage di 8mila musulmani a Srebrenica

Ergastolo al boia dei Balcani: Mladic firmò un "genocidio"

Ventidue anni dopo la guerra in Bosnia, oltre 100mila morti e 2 milioni di profughi di tutte le etnie, il generale Ratko Mladic, che ho conosciuto in prima linea nel carnaio della Jugoslavia, è stato condannato all'ergastolo. Genocidio, crimini contro l'umanità e di guerra dall'assedio di Sarajevo al massacro di ottomila musulmani a Srebrenica. Il massimo della pena dal Tribunale internazionale per l'ex Jugoslavia pronunciata dalla corte dell'Aia, secondo cui «i crimini commessi figurano tra i più vergognosi conosciuti dal genere umano». Una condanna a morte per l'ex generale, 74 anni e malato da tempo, che ha dato ancora battaglia urlando contro i giudici dell'Onu «sono tutte bugie». Mezzo mondo ha esultato per la pena esemplare, ma non sono pochi i serbi che continuano a considerare Mladic un «eroe». Lo ha detto chiaro, dopo la sentenza, Milorad Dodik presidente della fetta di Bosnia serba, che considera l'ergastolo «uno schiaffo alle vittime serbe» della guerra etnica. E aggiunge: «Persone come lui non le giudica un tribunale, bensì la storia». Nei commenti sui siti dei media internazionali non è mancato chi ha difeso il generale sostenendo sia stato «il primo a combattere lo Stato islamico in Europa».

Boia o eroe, ma chi era veramente Mladic negli anni terribili della mattanza jugoslava? Lo incontro la prima volta nel 1991, mentre la Croazia si sta infiammando, a Knin nell'entroterra dalmata dove ha il grado di colonnello del IX Corpus dell'esercito di Tito. Non ama i giornalisti e quando gli chiedo un'intervista mi fa quasi arrestare. È nato in un minuscolo villaggio bosniaco, orfano di padre, un partigiano titino ucciso alla fine del secondo conflitto mondiale. Ratko, in serbo, deriva da guerra. Inevitabile la scelta per il comunismo e la carriera nell'esercito.

Tutto inizia da Knin quando nel 1992 Mladic guida la sua unità verso Sarajevo per venire promosso sul campo generale al comando di 80mila serbo bosniaci. La prima mossa è stritolare la capitale con mortai e cecchini arroccandosi sulle colline e nell'unico quartiere serbo. A Goradze, un'enclave musulmana, messa a ferro e fuoco, lo ritrovo in prima linea osannato come un «duce» dalle sue truppe. Impassibile osserva con il binocolo i risultati delle cannonate di un carro armato su una moschea utilizzata come postazione. A Pale, la minuscola «capitale» dei serbi alle porte di Sarajevo, Mladic si fa vedere il meno possibile. Quando arriva avanza in mimetica fulminando i giornalisti con uno sguardo di ghiaccio. Il suo vero quartier generale è l'inavvicinabile bunker atomico di Han Pijesak voluto da Tito nel cuore della Bosnia. I prigionieri li sbatte in veri e propri lager dove vengono trattati come bestie, ma dall'altra parte della barricata fanno lo stesso. Il generale è l'uomo forte della Grande Serbia: occhi azzurri, collo taurino, incallito fumatore e bevitore di rakja, la grappa serba, è sempre pronto a incitare i suoi uomini.

Nell'estate del '95, alla resa di Srebrenica, sono agghiaccianti le carezze ai bambini, davanti agli inutili caschi blu dell'Onu, quando fa dividere gli uomini dalle donne e assicura che tutto andrà bene. Ottomila musulmani massacrati in pochi giorni e sepolti con i bulldozer in fosse comuni gli valgono il soprannome di «macellaio» dei Balcani.

Per anni, seppure ricercato per genocidio, viene protetto da Belgrado. Ogni tanto va a sciare sulle piste delle olimpiadi sopra Sarajevo o gioca a tennis nelle caserme serbe. Sembra che il suo unico, vero, rimorso sia il suicidio dell'amata figlia Ana. Forse si è uccisa per la vergogna di avere come padre «il macellaio», ma un'altra versione vuole che Mladic abbia mandato il fidanzato di Ana a morire in Bosnia su uno dei fronti più caldi.

Dal 2001 diventa un «fantasma». L'ultimo ricercato per crimini di guerra in Europa viene arrestato dieci anni dopo nella provincia di Vojvodina, dove ancora vendono spillette con la faccia dell' «eroe» Mladic. Durante il processo respinge tutte le accuse e sostiene di aver fatto la guerra «per proteggere l'Europa dall'Islam». Gli avvocati giocano la carta degli ictus e dei gravi problemi al cuore.

Il suo destino è segnato dalla condanna non solo del tribunale, ma della storia scritta dai vincitori.

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