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Ergastolo per il killer di Musy ma la «prova regina» non c'è

Carcere a vita per il faccendiere Furchì: «Uccise a colpi di pistola il consigliere Udc»

Ergastolo per il killer di Musy ma la «prova regina» non c'è

TorinoTanti indizi, nessuna prova regina. Ma per i giudici della Corte d'assise di Torino non vi sono margini di dubbio. Francesco Furchì, il faccendiere calabrese che tanto ha sgomitato nella vita per riuscire a ritagliarsi un posto nella Torino che conta, è il killer del consigliere comunale dell'Udc Alberto Musy. È stato lui, la mattina del 21 marzo del 2012, a crearsi un alibi falso, a indossare un casco integrale e un cappotto scuro, e così conciato tendere un agguato a Musy nell'androne della sua abitazione in via Barbaroux, in pieno centro a Torino. E allora eccolo il killer, stordito e sconfitto, ascoltare dalla voce del presidente della Corte Pietro Capello la sentenza che lo condanna al carcere a vita.

Eccolo Francesco Furchì, cercare conforto nei suoi avvocati e sussurrare loro con un sorriso incredulo: «Non è giusto. Sono innocente». Il faccendiere calabrese ha ucciso per vendetta dopo aver covato per anni un rancore intimo verso quel consigliere che tante cose gli aveva promesso, senza però mantenerne una.

Era il 28 gennaio del 2013 quando Francesco Furchì, presidente dell'associazione culturale Magna Grecia, ex candidato di secondo piano in una lista civica alle elezioni comunali del 2010, venne portato in procura. Volevano sentirlo sull'attentato al consigliere Alberto Musy. Quella notte di due anni fa, Furchì passò dal ruolo di testimone a quello di indagato e per lui si aprirono le porte del carcere delle Vallette.

Il processo contro Furchì è stato costellato da piccoli indizi, ma mai una prova schiacciante contro di lui. Nessuna pistola fumante. Anzi, nessuna pistola dal momento che l'arma non è mai stata trovata. Nessun testimone, tranne la stessa vittima, Alberto Musy, che tuttavia non lo riconosce e non lo indica come killer nei minuti di lucidità prima di entrare in coma.

Un processo complicato, cominciato prima di fronte al tribunale, quando Furchì era solo accusato di tentato omicidio perché Musy era in coma, ma vivo, nel letto di ospedale di una clinica privata. Un processo poi ricominciato daccapo, di fronte alla Corte d'Assise, dopo la morte del consigliere, avvenuta nell'ottobre del 2013. E per tutto questo tempo, Furchì ha sempre continuato a dirsi innocente. Intanto, in aula si dipanavano gli indizi. E si ricostruiva il percorso del killer attraverso le telecamere.

Non solo. In aula si lanciavano accuse esibendo perizie sulla compatibilità fisica tra Furchì e Casco, nome con il quale era stato ribattezzato il killer di Musy. Ora Furchì e casco si sono sovrapposti, assumendo l'uno l'identità dell'altro. Quasi come in un gioco di ruolo le due personalità, violente e vendicative, sono andate a sovrapporsi.

Una reazione a catena che gli avvocati di Furchì respingono con forza: «Ho sempre pensato che in gioco c'era l'urgente necessità di dare un volto e un nome all'omicida dell'avvocato Musy e di ricomporre al più presto la coesione sociale e il senso di tradizionale sicurezza compromessi da un delitto «eccellente», ha commentato l'avvocato Giancarlo Pittelli.

Dall'altra parte la vedova del consigliere, Angelica Corporandi d'Auvare: «Non ho mai avuto dubbi sul verdetto.

Adesso so cosa raccontare alle mie figlie».

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