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Facebook "in guerra", Apple chiede regole Silicon Valley al bivio

Su privacy e sicurezza il web si gioca il futuro. I due colossi sono su sponde opposte Cook: «Serve una normativa»

Facebook "in guerra", Apple chiede regole Silicon Valley al bivio

Tim Cook si era schierato già mesi fa: «La privacy? È un diritto umano». Domenica il numero uno di Apple ha confermato la posizione sua e del colosso che guida dalla scomparsa di Steve Jobs: «Un certo livello di regolamentazione è inevitabile». È questo il dilemma del settore tech: è venuto il momento di darsi più regole? La Silicon Valley degli albori, quando i vari Amazon, Apple, Google e Facebook erano piccole imprese che si arrabattavano nei garage, è diventata ciò che è oggi proprio grazie alla poca regulation in vigore. Ma, ora che quelle idee folli sono diventate aziende da miliardi di dollari che hanno un impatto enorme sulla vita degli utenti-clienti, il problema si pone.

«In linea generale non sono un grande fan della regolamentazione - ha detto Cook in un'intervista al sito Axios -. Credo molto nel mercato libero, ma bisogna ammettere che in questo caso non sta funzionando». L'ad di Cupertino ha ammonito i colleghi: bisogna prepararsi all'introduzione di norme (oggi assenti negli Usa) sulla sicurezza degli utenti e sull'utilizzo dei loro dati personali. «Non è una questione di privacy contro profitti o privacy contro innovazione», ha specificato Cook. Che non a caso un mese fa ha elogiato il Gdpr, la normativa europea sulla protezione dei dati entrata in vigore a maggio. E che ha lanciato un appello affinché negli Usa venga approvata a livello federale una legge simile. Apple può permettersi di portare avanti questa posizione perché non vive dei dati dei propri clienti, a differenza di Facebook che proprio per questo è finito in continui scandali, dal Russiagate a Cambridge Analytica. La polemica tra Cook e Zuckerberg non è un mistero: tempo fa il primo ricordava che Apple «potrebbe fare soldi a palate se i nostri clienti fossero i nostri prodotti, ma abbiamo scelto di non farlo perché non vogliamo mettere le mani sulla loro vita privata». E le sue parole sulla «regulation inevitabile» arrivano, guarda caso, a pochi giorni dall'inchiesta del New York Times che ha svelato alcune delle strategie «scorrette» messe in atto da Zuckerberg, in primis l'aver ingaggiato degli esperti per screditare le critiche sulla mancata tutela dei dati degli iscritti collegandole al controverso finanziere George Soros. Rivelazioni che hanno messo ulteriormente in crisi Menlo Park, che ieri perdeva il 5% in Borsa e che sta per chiudere il terzo mese di fila in ribasso e il peggiore dal marzo 2014, e a cui si è aggiunta ieri quella del Wall Street Journal: a giugno Zuckerberg avrebbe riunito i 50 top manager spiegando loro che l'azienda «è in guerra».

A oggi, comunque, negli Usa di articoli e commi non si vede nemmeno l'ombra. Solo la California a giugno ha approvato una normativa - in vigore dal 2020 - che introduce l'obbligo per l'azienda di dichiarare quali dati personali raccoglie e come, di cancellarli se richiesto e di venderli a terze parti solo dietro consenso. A livello federale sulla regulation c'è una proposta di Intel, che sta cercando uno sponsor per farla discutere al Congresso. Obiettivo: creare uno scudo legale per le imprese che dimostrino di aver fatto tutto il possibile per proteggere i dati dei consumatori e che, a quel punto, non sarebbero perseguibili per eventuali fughe di informazioni. Intervenire per primi con una proposta di regolamentazione prima che lo faccia il governo può essere una strategia per evitare norme troppo rigide.

Il pubblico d'altronde crede che ce ne sia bisogno: lo pensa il 59% degli americani, secondo un sondaggio di Axios, ma il 55 pensa che Washington non riuscirà a introdurle.

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