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Le false accuse, lo stupro, la prigione In nessun posto si sentirà mai sicura

Era l'unica cristiana del villaggio, chi l'ha difesa è finito male Scampata all'esecuzione finale, resta una condannata a morte

Le false accuse, lo stupro, la prigione In nessun posto si sentirà mai sicura

Ora è ufficialmente libera e assolta da ogni accusa, ma per 9 maledetti anni e mezzo Aasiyah Nauriin Bibi, alias Asia Bibi, è stata la prigioniera simbolo della «legge nera». L'icona delle abominevoli norme sulla blasfemia che in Pakistan e in altri paesi islamici prevedono la morte per chiunque venga accusato d'insultare Allah, Maometto, il Corano o, più in generale, la fede islamica. Tre giorni prima di lei, in Indonesia, era tornato libero, dopo due anni di galera, l'ex governatore di Giacarta, Basuki Tjahaja Purnama imputato per lo stesso reato, ma detestato, in verità, per aver dichiarato guerra alla corruzione. L'odissea di Asia Bibi, contadina cattolica oggi 48enne, inizia a Ittanwalai, il villaggio del Punjab dove lei, il marito Ashiq Masih e le cinque figlie sono l'unica famiglia cristiana. Da anni Asia e i suoi subiscono in silenzio le angherie dei vicini musulmani. Il peggio arriva nel giugno del 2009 durante una raccolta di frutti di bosco. Quel giorno l'infedele Asia Bibi, la «kafira», è costretta a portar l'acqua per le altre donne e invitata a convertirsi. Quando osa bere dallo stesso bicchiere delle musulmane viene accusata d'inquinare l'acqua con le sue labbra infedeli, invitata a rinnegare la propria fede per abbracciare quella del Profeta. Bibi rifiuta e, per una volta, reagisce. «Mi chiedete di convertimi esclama - ma io credo nella mia religione e in Gesù Cristo morto sulla croce per i peccati degli uomini. Cos'ha fatto il Profeta Maometto per salvare il genere umano?» Quelle parole, vere o inventate che siano, le sono fatali. Il 19 giugno una folla inferocita fa irruzione nella sua casa, la rapisce, la consegna allo stupro di una banda di uomini. L'anno dopo un tribunale la condanna all'impiccagione. Quasi dieci anni dopo l'incubo è finito, ma sfuggire alla maledizione della «legge nera» non è così frequente. Le accuse spesso si rivelano impossibili da ribaltare perché i testimoni a favore rischiano la stessa sorte dell'accusato. Lo sa bene Qari Salam, l'uomo che, sulle prime, giurava di averla sentita insultare Maometto. Al processo si pentì, ma i fondamentalisti gli fecero capire che ritirando l'accusa rischiava di morire al posto di Asia Bibi. Anche la condanna al patibolo è comunque una formalità. Se non la prescrivono i giudici ci pensano i fanatici reclutati allo scopo. Asia Bibi lo sa bene. In questi anni una spietata ventata d'odio ha spazzato via chiunque abbia tentato di salvarla. Il 4 gennaio 2011 Salmaan Taseer, il governatore del Punjiab colpevole di aver chiesto la revisione del suo processo e l'abolizione della «legge nera» viene crivellato di colpi da una delle guardia del corpo incaricate di proteggerlo. Il 2 marzo 2011 cade assassinato Shahbaz Bhatti, il ministro cristiano delle minoranze deciso ad ottenere la revisione del suo processo. Consapevole di questi rischi Asia Bibi ha dovuto nell'ultimo mese assistere alla partenza delle figlie per il Canada. Un esilio che anche lei e il marito dovranno affrontare quanto prima per sottrarsi alla vendetta dei fanatici islamisti. Ma la sua vita, e quelle dei suoi familiari, restano comunque segnate. Né in Canada, né in qualsiasi altro angolo del pianeta lei e si suoi cari potranno mai dirsi al sicuro dal rancore jihadista.

Ovunque li inseguirà la minaccia di quella fatwa non detta, di quella condanna al patibolo cancellata dalla Corte Suprema, ma trasformata in maledizione irreversibile dall'odio di centinaia di migliaia di fanatici che in Pakistan e nel resto del mondo continuano ad invocare la sua esecuzione.

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