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Fidanzati uccisi: indagato commilitone di lui

C'è l'arma del delitto, una vecchia 7.65 anteguerra. La classica pistola del «nonno», antica ma come tante cose non dimenticate, custodite curate e perfettamente funzionante. Trovata nel laghetto artificiale del parco di Pordenone, 500 metri dal luogo del luogo dell''esecuzione. Adesso c'è anche un indagato. Manca solo un perché. Perchè Trifone Ragone, 28 anni, caporal maggiore del 132° Reggi cento carri di Cordenons e la sua donna bella, desiderabile e desiderata, quella Teresa Costanza arrivata pe suo amore dalla Bocconi e dalla perigliosa movida di Milano, sono stati uccisi in una sera di inizio primavera? L'uomo cui da sei mesi i carabinieri davano la caccia, il fantasma arrivato da chissà dove, per gli investigatori finalmente ha un volto. Con un nome e cognome: Giosuè Ruotolo, 26 anni, pure lui soldato, pure lui col grado di caporale. Un collega, ma anche un amico della vittima.

Il bandolo della matassa, ripercorsa seguendo immagini, cellulari, racconti, bugie e omissioni, ha portato gli investigatori del Ros a focalizzare il mirino. Il militare, il sospettato numero 1, non ha confessato. Al contrario. Fino a prova contraria resta un innocente. Tentare di parlargli però è impossibile. Al citofono dell'appartamento in via Cristoforo Colombo, lo stesso in centro città che per un anno aveva condiviso con Trifone e almeno un'altra persona, non risponde nessuno. La caserma De Carli appare oggi come un forte assediato, una trincea. Con l'ordine del silenzio. Giosuè, in congedo vacanza, in queste ore potrebbe essere nella sua Somma Vesuviana. A casa, non latitante, solo, semplicemente, lontano. Nascosto dalla ribalta noir. Ha nominato un avvocato, per parlare in sua vece.

Se gli investigatori hanno trovato nelle acque paludose del San Giorgio la semiautomatica che quella sera della sera del 17 marzo scorso sparò sei colpii ai due ragazzi usciti di palestra non è un caso. Tra le quattrocento e passa persone ascoltate, vagliate, passate al setaccio dai carabinieri i conti correnti, le frequentazioni, i profili internet se, l'occhio si era posato proprio lì doveva esserci un motivo. Più di uno. Una macchina, un'Audi scura ripresa dalle telecamere, nella zona del Palasport, prima e dopo gli spari. Poi procedendo per scrematura si è arrivati. Perché Giosuè - secondo gli inquirenti - avrebbe mentito sui suoi spostamenti? Aveva detto di essere da un'altra parte quella sera. I telefonini, i tabulati giocano a suo sfavore. I Ris da qualche giorno frugano ogni traccia ma quante polvere da sparo si può trovare nell'auto di uno che di mestiere fa il soldato? «Abbiamo un'idea seria ma di più non posso dire... anche per non dare vantaggi al killer» taglia corto con prudenza il procuratore capo di Udine Marco Martani. La delicatezza dell'indagine impone il silenzio. Un silenzio dal quale trapela un dettaglio: non ci sarebbe un mandante. Il sicario non l'ha fatto su commissione. Ha pensato, ideato e ucciso per vendetta. Rabbia. Forse per un un motivo tanto banale da apparire assurdo. Sta proprio qui il nocciolo dell'inchiesta. Magari questioni di soldi, forse neppure tanti. Di promesse non mantenute. Di accordi non rispettati. Trifone guadagnava tra i 950 e i 1.100 euro al mese. Sfilate, calendari e comparsate in discoteca servivano a rimpinguare uno stipendio appena sufficiente a coprire le spese e i costi dell'attività sportiva. Alla coppia con i loro due stipendi (lei aveva da poco trovato lavoro), una volta affittato il loro nido d'amore in via Chioggia, bastava a malapena. Erano i genitori, quando serviva, a contribuire con piccole somme o con il pagamento delle bollette.

Ma si puo morire per una rata non pagata?

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