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La finanza islamica degli alfaniani: ​"Serve un fisco a misura di sharia"

La proposta di legge di Ap: "I precetti del Corano fanno lievitare costi e tasse, bisogna agevolare gli investimenti dei musulmani"

La finanza islamica degli alfaniani: ​"Serve un fisco a misura di sharia"

«Disposizioni concernenti il trattamento fiscale delle operazioni di finanza islamica», titolo della proposta di legge appena depositata alla Camera. Firmatario non un deputato pro-Islam del Pd o di Sinistra Italiana, ma l'alfanianano Maurizio Bernardo, tesoriere gruppo parlamentare di Ap guidato da Maurizio Lupi, storico esponente di Comunione e Liberazione (insieme a Raffaello Vignali, ex presidente della Compagnia delle opere, anche lui deputato Ap), e fino a poco tempo fa composto anche dagli ultracattolici Paola Binetti e Rocco Buttiglione. Bernardo, oltre ad essere presidente della commissione Finanze è anche responsabile dell'Associazione Interparlamentare di Amicizia Italia-Israele, e pure consigliere della Fondazione Italia-Usa.

Insomma non certo il profilo di un tifoso dell'immigrazione musulmana, anche se il partito di Angelino Alfano si è mosso sempre con prudenza sul tema dell'islam: dai tavoli di confronto con gli imam, alla tutela del «pieno diritto di pregare dei musulmani in Italia perché sarebbe un errore confondere chi prega con chi spara» spiegò l'ex ministro dell'Interno. Ora, i centristi si preoccupano anche di spianare la strada alla finanza islamica. L'obiettivo dichiarato è fiscale: «La presente legge», recita l'articolo 1 del ddl, «regola il trattamento tributario delle operazioni finanziarie poste in essere osservando i principi della legge islamica, la sharia, al fine di assicurare un'imposizione fiscale equiparata a quella delle operazioni convenzionali», e grazie a ciò, «attrarre capitali ingenti che altrimenti transiterebbero altrove». La torta è di dimensioni non indifferenti: si stima che le famiglie musulmane in Italia muovano qualcosa come 6 miliardi di euro, mentre gli asset globali della finanza islamica, secondo Standard & Poor's, nel 2018 varranno 3mila miliardi di dollari.

Come spiega la bozza, il principale ostacolo all'espansione della finanza islamica in Italia «è la duplicazione dell'imposizione fiscale che si paleserebbe a causa della struttura di tali operazioni, necessaria a garantirne la conformità ai principi della Sharia». Un investitore islamico - dal grande fondo sovrano ad una banca ai risparmi della famiglia musulmana trapiantata in Italia -, che volesse contrarre un mutuo (murabaha), stipulare contratti di leasing (ljarah), o utilizzare obbligazioni (sukuk) attendendosi alle istruzioni del Corano su questa materia, finirebbe col pagare più tasse. Questo perché i precetti coranici, applicati alle più normali operazioni, finiscono col moltiplicare i passaggi, e di conseguenza anche i costi. Esempio: il denaro non può generare denaro, cioè interessi, solo perché passa del tempo, perché il tempo appartiene ad Allah. Oppure, le transazioni finanziarie devono sempre essere legate a operazioni di economia reale.

«Ho pensato a questa legge dopo la Brexit, per intercettare un mercato gigantesco» dice Bernardo a Formiche.net. Quanto al terrorismo, e al rischio che il flusso di capitali «islamici» a cui si applica la zakat (la tassa per il culto) possa finanziare la jihad, gli alfaniani non sono troppo preoccupati: «In Italia non c'è solo la Uif (l'Unità investigativa di Bankitalia, ndr), ma la Guardia di Finanza, la Polizia tributaria.

Tutte cose che in molti Paesi non ci sono».

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