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La fine del finto pacifista Abu Mazen. Trump ha svelato la sua incapacità

Mai una vittoria e ora gli Usa dialogano più di lui con Hamas

La fine del finto pacifista Abu Mazen. Trump ha svelato la sua incapacità

Gerusalemme Non c'è giorno ormai in cui Abu Mazen, al secolo Mahmoud Abbas, non denunci con le parole e coi fatti, il declino del suo potere, anzi, la sua agonia, mentre altri uomini, altri eventi, occupano lo spazio della scena palestinese, e anche del suo eventuale, difficile tuttavia, sviluppo.

Ieri l'ultima uscita di Abu Mazen denuncia per l'ennesima volta il rifiuto verticale a ogni proposta di un piano di pace che provenga dagli Stati Uniti, dall'odiato presidente Trump che ha osato riconoscere che Gerusalemme è la capitale d'Israele: questo, più di ogni altro evento, ha messo il punto esclamativo sul fallimento di una politica. Abu Mazen non ha ottenuto guadagni storici rifiutando ogni accordo; ha cercato di costruirsi un'immagine decente e pacifista all'estero, gestendo invece con determinazione e con la distribuzione di molto denaro (proveniente dagli aiuti del mondo intero) la continua spinta al terrorismo; non ha fatto spazio a una successione, e ora è assediato dai suoi peggiori nemici. Con un comunicato di ieri, Abu Mazen condanna l'idea che i palestinesi e la Giordania debbano formare una confederazione e aggiungendo sarcasticamente che «allora dovrebbe farne parte anche Israele», un tema peraltro mai confermato dagli americani come parte di un piano di pace ma che potrebbe presto venire all'orizzonte carico di promesse economiche e di pubblico interesse: ma lui vede il piano americano come parte della cospirazione di cui parla di continuo per annientare la causa nazionale palestinese. Non è così: è la politica palestinese, la sua politica, quella di Abu Mazen ereditata da Arafat, dichiarazioni di buone intenzioni e terrorismo, che finalmente è stata messa a nudo da una serie di mosse del governo di Trump, e dalla sua rappresentante all'Onu, Nikki Haley.

Due sono le questioni principali di questi ultimi giorni: il dialogo che, sopra la testa di Abu Mazen, e con un bizzarro ponte qatarese ma, soprattutto, egiziano, Israele ha condotto per neutralizzare Hamas ed evitare l'ennesima guerra a Gaza. Una strategia lungimirante, che limita morti e feriti e lascia le mani libere a Gerusalemme per un compito che sta a cuore a tutto il mondo sunnita: spingere via dalla Siria l'Iran che assedia il Medio Oriente.

Per ora la guerra non c'è, Hamas certo non è diventato sionista, ma è stato fermato; Abu Mazen, irritatissimo, ha dichiarato che l'unico ad avere titolo per fare una qualsiasi accordo con Israele è lui, e che semmai Hamas vuole aggregarsi a lui deve consegnargli territori e milizie. Naturalmente, non se ne parla, mentre gli sforzi arabi di pacificazione procedono lasciandolo isolato a dir di no all'Egitto, al Qatar, a Trump...e a Israele come al solito.

E le accuse di Abu Mazen volano. Di più ancora poiché, altra scelta epocale, gli Stati Uniti hanno deciso di smettere di riconoscere come profughi quei palestinesi che da 70 anni si dichiarano tali dopo la guerra del 1948, passando ai figli dei figli, sempre più numerosi, tutti i diritti attribuiti (solo a loro fra tutti i profughi) dalla molto benevola Onu. Ora l'Unrwa, l'organizzazione ad hoc, mentre la definizione di profugo viene rivista, non riceverà più i 300 milioni di dollari l'anno che gli Usa le conferiscono. I cosiddetti rifugiati palestinesi sono intanto passati da 500mila a 5 milioni: l'Unrwa non solo li mantiene ma fa una politica che ha prevenuto la soluzione del conflitto. L'Unrwa ha prevenuto il ricollocamento dei profughi: la cronista ricorda il desiderio rifiutato dalla comunità di un suo stringer residente del campo profughi di Deheshe di andarsene per sempre a vivere altrove con la giovane moglie. Proibito, non si fa (poi lui ce l'ha fatta lo stesso). Si resta profughi, figli compresi, a scuola in strutture che adottano libri di testo pieni di odio e di incitamento al terrorismo. La destrutturazione di questo sistema rende nulla una delle ragioni d'essere della politica di Abu Mazen, che è il diritto al ritorno.

Abu Mazen dal 2005 quando è diventato presidente dell'Autorità Palestinese non ha portato a casa una sola vittoria strategica, anche se Israele, invitandolo al tavolo di pace più e più volte, gli ha offerto svariate possibilità. Adesso la sua tetragona, rabbiosa muraglia è peggiorata, il suo retaggio si è macchiato di molte affermazioni propriamente antisemite e revisioniste, la sua difesa dei salari ai terroristi in carcere da quando (altra sconfitta) i fondi americani sono stati tagliati, lascia senza parole.

È un leader battuto dai nuovi tempi cui non sa dare altro che risposte sbagliate.

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