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Fini pronto a cacciare l'amico che rifiutò l'affare con Tulliani

Da «che fai mi cacci?» a epuratore. Nelle carte la storia di Laboccetta, il Gip: "Minacciò di ostacolarlo in politica"

Fini pronto a cacciare l'amico che rifiutò l'affare con Tulliani

Roma - «Che fai mi cacci?». Com'è lontana politicamente la battuta con cui Fini si disegnava il ruolo di martire del dissenso politico anti berlusconiano. Una mossa che lo consegnò temporaneamente al ruolo di idolo delle opposizioni, unico vero statista del centrodestra, capace di sacrificare il proprio ruolo subendo l'ingiusto esilio pur di resistere a schiena dritta al «tiranno». La verità era un po' diversa, come s'è visto.

Ma nelle carte dell'inchiesta sulla casa di Montecarlo, oltre alle tracce di un malaffare che vede l'ex presidente della Camera indagato per un reato che è ben poco politico, il riciclaggio, c'è anche l'accusa di aver usato il proprio ruolo per favorire la consorteria d'affari che ruotava intorno ai Tullianos e al re delle slot machine Francesco Corallo. E Fini non avrebbe disdegnato, a questo scopo, di usare anche l'arma dell'epurazione di cui in seguito si sarebbe atteggiato a vittima. Nell'ordinanza con cui vengono sequestrati beni per cinque milioni di euro ai fratelli Tulliani il Gip Simonetta D'Alessandro rievoca una circostanza che risale a tre anni prima del famoso «che fai mi cacci?». Protagonisti sono Gianfranco Fini e il parlamentare del Pdl Amedeo Laboccetta, anche lui oggi coinvolto nell'inchiesta. «Tra il 2006 ed il 2007, l'on. Gianfranco Fini - annota il giudice - cercò di far concludere un affare immobiliare a Giancarlo Tulliani, fratello della compagna Elisabetta, presentandolo a Laboccetta come intermediario per l'acquisto di una proprietà in Roma cui era interessata la società concessionaria di Corallo». L'affare però non si conclude proprio per l'opposizione del parlamentare. «Laboccetta ostacolò l'operazione immobiliare non ritenendola adeguata e ciò non fu gradito all'on. Fini che lo minacciò di ostacolare, per ritorsione, le sue ambizioni politiche».

Quella volta, dunque, a minacciare la «cacciata» fu proprio Fini. Con la non trascurabile differenza che le motivazioni del padre fondatore di Alleanza nazionale non erano collegate ad alti motivi di principio, a dissidi politici di fondo. Fini, accusato di aver usato la propria posizione per favorire un imprenditore in cambio di denaro, facendogli ottenere provvedimenti legislativi favorevoli, avrebbe mescolato potere e affari anche con la minaccia, se non di una «cacciata», quantomeno di stroncare la carriera politica di un compagno di partito. Lo stesso Laboccetta in un'intervista dello scorso gennaio ricorda: «Fini - ha raccontato - tentò di convincermi ad acquistare, per conto di Corallo, un immobile a Roma che mi veniva proposto dalla società di suo cognato. Io non l'ho fatto perché era un immobile che non aveva le condizioni di presentabilità e Fini se n'è pesantemente risentito. Tra l'altro me l'aveva presentato durante un pranzo al circolo Antico Tiro al Volo dicendomi che era un amico.

Poi scoprii io, dopo qualche giorno, che era il cognato».

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