Politica

Formigoni condannato a 5 anni e 10 mesi E adesso si aprono le porte del carcere

Formigoni condannato a 5 anni e 10 mesi E adesso si aprono le porte del carcere

Cristina Bassi

Luca Fazzo

«Prove soverchianti, coriacee, convergenti». Pochi istanti prima delle 21 di ieri, su Roberto Formigoni - l'uomo che per diciott'anni ha regnato sulla Lombardia - la giustizia cala la sua parola finale. La Cassazione dice che Formigoni è colpevole di corruzione continuata e aggravata, colpevole di avere messo la sua funzione al soldo dei signori della sanità privata, il San Raffaele e la Fondazione Maugeri. Cinque anni e dieci mesi. Formigoni deve andare in carcere. Sarà lui, nelle prossime ore, a decidere se costituirsi in una prigione a sua scelta, o attendere l'arrivo della Guardia di finanza. La saga di un potente che ha segnato la storia recente d'Italia si chiude nel peggiore dei modi, e per l'uomo che l'ha incarnata si apre il capitolo più duro da affrontare: trovare dentro di sè la forza per affrontare il carcere. Non potrà chiedere permessi né sconti di pena, perché da una manciata di giorni è entrata in vigore la legge spazzacorrotti, che equipara i politici corrotti ai mafiosi e ai terroristi.

La sesta sezione penale della Cassazione, presieduta da Anna Petruzzellis, sposa in pieno le tesi della Procura di Milano. Viene modificato al ribasso il calcolo della pena, ma solo perché uno dei capi di accusa contestati a Formigoni è stato dichiarato prescritto. I sette anni e mezzo inflitti in appello scendono a cinque anni e dieci mesi. Invano Franco Coppi, difensore dell'imputato, aveva chiesto che tutto il fascicolo tornasse a Milano almeno per ricalcolare la prescrizione. Niente da fare, i giudici della Suprema Corte provvedono da soli.

L'accusa prescritta è quella per le tangenti dal San Raffaele, l'ospedale fondato da don Verzè, e miracolato secondo l'accusa da fondi regionali per centinaia di milioni grazie ai rimborsi decisi dalla giunta Formigoni. Ma a mandare l'imputato in carcere basta l'altro capo d'accusa, quello per i rapporti con la Fondazione Maugeri, altro colosso dell'healthcare privato, tassello importante del sistema di assistenza mista voluto da Formigoni, il «modello Lombardia» che è stato, e continua a essere, il principale vanto della sua carriera. Duecento milioni almeno, i soldi indebiti incassati dalla Maugeri; otto milioni quelli ritornati in cambio a Formigoni e al suo entourage sotto forma di finanziamenti elettorali, eventi, convention, ma anche yacht, ville, cene di lusso, vini pregiati e persino contanti. Quasi tutti attraverso Piero Daccò, lobbista della sanità e amico di famiglia di Formigoni, che dopo lunghi anni di carcere ha scelto di venire a patti con i giudici: e anche la resa di Daccò, nella requisitoria di ieri della procura generale, diventa una prova ulteriore della colpevolezza di Formigoni.

Invano i legali del «Celeste» nelle loro memorie, e negli interventi ieri in aula, sono tornati a sostenere che Formigoni non è stato messo in grado di potersi difendere, perché l'impianto accusatorio è stato modificato e rimodificato strada facendo, adattandolo a quanto emergeva nel corso del processo ma senza trasformarlo in nuove contestazioni; inutilmente hanno provato a convincere i giudici che le testimonianze d'accusa sono entrate nel processo in violazione delle norme processuali. Tutto inutile. Davanti all'«imponente patto corruttivo» (definizione del procuratore generale), le tecnicalità hanno ceduto il passo alla sostanza.

A Formigoni tocca affrontare la stessa prova toccata prima di lui al governatore di un altra grande regione, il siciliano Salvatore Cuffaro, finito in carcere a espiare la pena.

Ma Cuffaro era più giovane.

Commenti