Politica

La fronda Pd affossa la maggioranza

Il segretario chiede la conta sull'Italicum. In 71 votano sì, 29 escono dall'Aula. Ma i dissidenti già si dividono

Roma Sul banco di prova dell'Italicum, la lacerazione profonda che attraversa il Pd arriva (quasi) al punto di non ritorno.

Quasi, perché al dunque, poi, l'agguerrita fronda di quelli che odiano Matteo Renzi e provano da mesi a toglierselo dalle scatole tentenna, vacilla, esita, si divide. All'assemblea dei senatori il premier è arrivato dopo il faccia a faccia con Berlusconi, e ha chiesto la conta pro o contro l'Italicum. La bersaniana Lo Moro annuncia il suo no e rimette il mandato di capogruppo in Commissione: «Tra il ruolo e le mie convinzioni, preferisco le mie convinzioni per star bene con me stessa», dice compunta. Renzi non fa una piega: «Anch'io voglio star bene con me stesso ma, per il ruolo che abbiamo, la prima cosa è star bene con gli italiani», replica.

In 71 votano con lui, gli altri escono per non contarsi. E presto si capisce perché: dei 35 originari firmatari del documento Gotor (il senatore bersaniano capofila della battaglia contro l'Italicum e per le preferenze) alcuni si sono sfilati già lunedì sera, altri si sfilano platealmente in assemblea (Astorre, Mirabelli) assicurando il proprio sostegno al governo, altri (Puppato, Idem, Albano) mandano una dichiarazione alle agenzie per spiegare che voteranno la riforma elettorale, al di là delle «perplessità» su alcuni suoi aspetti. Fatto sta che quando Renzi chiede il voto, dopo aver spiegato che il tempo delle mediazioni e delle trattative si è esaurito da un pezzo e dopo aver letto - con qualche perfidia - una sfilza di dichiarazioni di Bersani contro le preferenze e per il premio di lista, i frondisti capiscono che è meglio non farsi contare: «Noi 29 firmatari usciamo dall'aula», annuncia il senatore Corsini tra sbuffi e proteste esasperate degli altri. Escono solo in diciotto. «Del resto - chiosava sornione Ugo Sposetti - siamo tutti qui grazie alle candidature bloccate del Porcellum, anche quelli che firmano gli emendamenti contro le candidature bloccate».

«La verità - spiega un dirigente Pd - è che se salta la legge elettorale saltano il governo e la legislatura: nessuno dei cosiddetti 'dissidenti' ha voglia di suicidarsi perdendo il posto». Il problema è che nella minoranza Pd convivono anime diverse e spesso in conflitto tra loro, e che manca un obiettivo chiaro della guerriglia contro l'odiato Renzi. «Per molti di loro ormai è inevitabile cercare di costruirsi un altro punto di approdo, un nuovo partito - dice Stefano Esposito, il Giovane turco autore dell'emendamento salva-Italicum - vedrete che se domenica vince Tsipras in Grecia molti di loro dovranno accelerare». Anche i bersaniani, aggiunge: «Bersani non vorrebbe, ma ormai si è messo in moto un meccanismo infernale: i capi della rivolta sono i suoi consiglieri, gli stessi che lo hanno portato al disastro delle elezioni del 2013».

Scissione inevitabile, dunque? Come al solito, molto dipende da Renzi: per rompere, i dissidenti hanno bisogno di un casus belli spendibile, di cui addossare la responsabilità al premier. Civati, Mineo e compagni puntano a farsi espellere, e ci stanno provando con la Liguria: i parlamentari civatiani di Genova Pastorino e Briano sono pronti ad annunciare che non voteranno la candidata alla Regione del Pd, ma quello di Sel (ammesso che venga trovato). «E poi Renzi che fa, ci caccia?», sfida Pastorino in un'intervista al Manifesto .

Resta da vedere se Renzi ci cascherà: ieri il ministro Maria Elena Boschi, a chi le chiedeva se ci sarebbero state sanzioni per i dissidenti, replicava con un sorriso soave: «Non siamo certo il partito delle espulsioni, noi».

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