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"Fui a un passo dal prenderlo. Ma la sinistra me lo impedì"

L'ex direttore dell'ufficio estradizioni del ministero, Eugenio Selvaggi: "Il sì di Parigi, poi le pressioni di intellettuali e politici"

"Fui a un passo dal prenderlo. Ma la sinistra me lo impedì"

Un viaggio a Parigi. Era il 1995: «Andai da un influente consigliere giuridico del capo del governo e dopo una lunga trattativa riuscii ad aprire una breccia nella dottrina Mitterand».

Dottor Selvaggi, allora non si parlava ancora di Cesare Battisti?

«No, la questione Battisti emerse successivamente, ma senza quel passaggio sarebbe stato impossibile anche solo accennare al problema».

In quei giorni Eugenio Selvaggi, magistrato, a lungo sostituto procuratore generale in Cassazione prima di andare in pensione, era il direttore del delicatissimo ufficio estradizioni e rogatorie del ministero della giustizia.

Dunque, che cosa accadde?

«Finalmente i francesi stabilirono che per gravi fatti di sangue la dottrina Mitterand sarebbe stata superata e i terroristi estradati».

In concreto?

«Le cose si ingarbugliarono per tante ragioni. C'erano le pressioni degli intellettuali transalpini che premevano per proteggere gli ex brigatisti, e ci furono, nel caso di Marina Petrella, le manovre di Carla Bruni che convinse il marito Nicolas Sarkozy a non far partire l'ergastolana per l'Italia».

Alla fine le estradizioni si contano sulle dita di una mano.

«Certo, la svolta teorica fu tradita sul piano pratico. Io ricordo solo la vicenda di Paolo Persichetti che era stato condannato a 22 anni per concorso morale nell'omicidio del generale Licio Giorgieri. Lui fu effettivamente consegnato alle autorità italiane, ma fu un unicum».

E Battisti?

«Parigi, quando arrivò il suo turno, disse di si a Roma. È vero che anche lui era vicino a certi circoli di scrittori e dei soliti intellettuali che ci dipingono come il Paese delle leggi speciali, ma è altrettanto certo che lui era un terrorista ai confini con la delinquenza comune, un mezzo bandito. E poi era evaso dal carcere».

Ma questo cosa c'entra?

«C'entra eccome. Perchè ci permetteva di superare l'annoso problema della condanna in contumacia, insomma del processo in assenza dell'imputato. Anzi, qualche volta senza che l' imputato nemmeno sapesse di essere alla sbarra».

Insomma, Battisti era a un passo dall'Italia?

«Si, ma poi, misteriosamente, fu fatto partire».

I francesi trovarono una soluzione all'italiana?

«Direi di si. In un modo o nell'altro arrivò in Brasile».

Ora che cosa succederà?

«Dal punto di vista politico le condizioni sono favorevoli. Il presidente Michel Temer ce lo vuole rimandare indietro».

Quindi è lecito essere ottimisti?

«Si ma fino a un certo punto. Il diritto brasiliano non contempla l'ergastolo e Battisti ha il carcere a vita sulle spalle».

Come se ne esce?

«Ci potrebbe essere un impegno formale del nostro ministro della giustizia affinchè il leader dei Pac non sconti in Italia una pena superiore ai trent'anni, il massimo per il Brasile. Ma si potrebbe anche procedere con un altro sistema».

L'espulsione verso l'Italia?

«Esatto. In quel caso il Brasile non porrebbe alcuna condizione e l'Italia avrebbe vinto su tutta la linea. Ma l'espulsione potrebbe anche avere come meta la Francia o, peggio, l' ultimo paese da cui lui era transitato nella sua fuga infinita: il Messico.

E qui il filo si attorciglierebbe di nuovo».

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