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Gentiloni porta il Pd sul Colle "No a Mattarella è no all'Italia"

Dopo Martina, anche il premier si schiera contro Renzi «Se ci sarà una proposta del Quirinale, tutti riflettano»

Gentiloni porta il Pd sul Colle "No a Mattarella è no all'Italia"

E poi c'è sempre Paolo «il caldo», il «freddo», il «tiepido». Il premier e il leader per le stagioni piene e pure per le mezze. Dimissionario dal 24 marzo scorso, il governo Gentiloni ha superato i 500 giorni di vita: senza sconquassi, trionfi e tripudi, vuol dire già la metà dei mille strombazzati dall'«altro», il «dante causa», il «segretario-ombra» Matteo Renzi. Che, da quando Gentiloni è entrato in «disbrigo affari correnti» è ancora meno premier-ombra che nel passato.

Ma anche e soprattutto perché Gentiloni è cresciuto e cambiato. Ora avanza le sue critiche all'ex leader apertamente, come ieri sera, ospitato da Fazio a Che tempo che fa. Soprattutto sulla gestione della trattativa con i grillini, il premier spiega che «forse però si poteva discutere, anche per mettere a nudo le loro debolezze». E insomma, «il gran rifiuto non era indispensabile», il tocca a loro, «per un partito di governo come il Pd», non era proprio la scelta ottimale. «Il Pd deve dare il suo contributo, non è partito d'opposizione», anche se un appoggio a un governo Di Maio «in questa situazione non era possibile». Nel delicato labirinto delle consultazioni finali che iniziano oggi, non può essere perciò trascurato il «punto G», ovvero la rete di salvataggio che il Quirinale non ha mai tirato via al di sotto dei trapezzisti da vittoria elettorale. Nel senso che se proprio la situazione sarà intricata e senza sbocchi, non va esclusa la «prorogatio della prorogatio». Gentiloni «preferirebbe di no», spiega incespicando sulla citazione (scambia Melville per Oscar Wilde), ma lui comunque lo considererebbe «un dovere». Parole assai dure usa il premier verso chi, invece, in queste ore «sta dicendo degli altolà preventivi, dei no a prescindere» rispetto a quanto il presidente della Repubblica può andare a proporre. «Se Mattarella facesse una proposta, il minimo sarebbe fermarsi a riflettere, perché dire no a Mattarella ora significa dire no all'Italia». E se il Quirinale chiama, «è difficile non prendere in considerazione l'impegno e mettere le mani avanti: per questo invito tutti alla prudenza». Gentiloni non sembra nutrire grande fiducia nei giovani vincitori delle urne, «è legittimo che provino a governare», ma un governo Lega-M5s resterebbe «un'incognita». E se Di Maio dice che «per gli affari correnti tanto vale tenersi Gentiloni», il premier non si scompone. «Non so se mi ha fatto un favore a dirlo, perché un governo senza un rapporto di fiducia con il Parlamento è comunque un problema, è più debole, ti manca la forza politica, la capacità di rappresentare la maggioranza del Paese». Naturalmente di Gentiloni si è parlato e si parla al Nazareno: per Veltroni è una «grande risorsa, la leadership inclusiva di cui abbiamo bisogno». Sono perciò in tanti a non attendere altro che «Paolino il tiepido» prenda in mano il partito e lo rigeneri a poco a poco in virtù della sua sconfinata pazienza, quando sarà finita questa eterna fase emergenziale.

Gentiloni non pare volersi tirare indietro, perché ricorda con soave malizia le «sberle», le sconfitte «brucianti» prese dal partito «il 4 dicembre e il 4 marzo (il 4 non ci porta bene), senza che il Pd abbia fatto un minimo d'analisi per capire il perché». Ovviamente, dice Gentiloni, «non è tutta colpa di Renzi, ma di tutti a cominciare da me, però sarebbe utile correggere molti degli errori, a cominciare dal capire il bisogno di protezione e tutele che sentono i cittadini più fragili».

Il premier traccia il profilo di un partito che torni più saldamente nell'alveo della sinistra, con alleanze organiche fino a quella sinistra «più decisa», come la definisce. Vuoi vedere che, zitto zitto, quatto quatto, il futuro finirà per riservarci persino una versione di «Paolino il rossino»?

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