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Germania, nei tribunali scoppia la battaglia del velo

L'associazione dei magistrati chiede di vietare l'hijab per avvocati e giudici: «Mina la neutralità della legge»

Germania, nei tribunali scoppia la battaglia del velo

Il velo islamico non si addice ai magistrati tedeschi. La riflessione non è farina del sacco di qualche politico conservatore in cerca di consensi ma è il succo di una proposta della stessa Associazione dei giudici tedeschi (Deutsche Richterbund) e dell'Associazione dei giudici amministrativi (BDVR). La proposta di vietare l'hijab per magistrati e avvocati è stata fatta propria anche da due ministri statali della Giustizia: Guido Wolf in Baden-Württemberg e Uta-Maria Kuder in Meclemburgo-Pomerania occidentale. L'espressione esterna di simboli religiosi, argomentano i proponenti, confligge con la necessaria e doverosa neutralità della legge.

Il bisogno di mettere ordine fra le corti della Repubblica federale si è fatto più forte all'inizio dell'estate, con la conclusione di un caso giudiziario a favore di un'avvocatessa tirocinante. Nel 2014 Aqilah Sandhu, neolaureata avvocatessa tirocinante, aveva ricevuto una lettera in cui la più alta corte del Libero Stato di Baviera le vietava di interrogare testimoni o di adempiere ad altre attività legate al suo tirocinio con l'hijab sul capo. Senza farselo dire due volte, Sandhu aveva fatto ricorso contro la decisione, «perché capii immediatamente che la lettera non aveva alcun fondamento legale». La giovane aveva evidentemente concluso con profitto il suo ciclo di studi all'Università di Augsburg, visto che due anni dopo la stessa giustizia bavarese le ha dato ragione, riconoscendo la sostanziale assenza di una legge che vieti l'ostentazione di simboli religiosi nei tribunali.

A colmare la lacuna ci hanno pensato le due associazioni di categoria e lo stesso ministro Wolf, un cristiano-democratico (Cdu) come la cancelliera Angela Merkel, al lavoro per un divieto a livello federale. Subito d'accordo si è detta anche la ministra Kuder secondo cui l'espressione di una fede non è appropriata in un'aula dove giudici e procuratori rappresentano lo Stato: «Poiché vi è una stretta necessità di neutralità da parte delle istituzioni, ogni indicazione esterna di una mancanza di obiettività dovrebbe essere evitata». In questo caso l'abito fa anche il monaco, ha aggiunto da parte sua il presidente della BDVR, Robert Seegmüller, ricordando che i togati uomini e donne «sono vestiti allo stesso modo: è un'indicazione alle parti in causa che il giudizio non è legato alle persone ma solo a quanto indicato dalla legge». «Per i cittadini è importante che il sistema chiamato a decidere per loro sia riconosciuto come imparziale», ha dichiarato alle agenzie tedesche Jen Gnisa del Deutsche Richterbund.

In assenza di una chiara iniziativa da parte del governo federale, Länder e associazioni di categoria cercano di fare chiarezza. Sempre dello scorso giugno è anche una proposta del governo statale di Monaco di vietare alle parti convenute in processo di indossare un burqa. Di nuovo è stato il caso di una donna islamica a spingere all'iniziativa legislativa: la 43enne Amira Beqari aveva denunciato un cittadino che alla stazione di Monaco l'aveva invitata a «tornare a casa sua». In primo grado la corte aveva ammesso la sua deposizione nonostante il suo volto non fosse per nulla visibile. In secondo grado, invece, i togati le avevano spiegato che se non avesse mostrato il viso non solo non avrebbero potuto ammettere la sua deposizione ma l'avrebbero anche sanzionata per oltraggio alla corte.

Nata e cresciuta in Germania e coperta fino alla punta delle dita, la donna che per tutta la durata del procedimento ha richiesto l'ausilio di un interprete arabo-tedesco accettò «l'invito» dei giudici.

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