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Giravolta del Sì: noi come Trump, siamo il cambiamento

I renziani provano a cambiare rotta, ma Fi li sbugiarda. E il No avanza compatto

Giravolta del Sì: noi come Trump, siamo il cambiamento

Roma - Spreca fiato il fronte dei corifei renziani, a invocare uno stop alla (presunta) «strumentalizzazione della vittoria di Trump». È chiaro a tutti, invece, che l'onda atlantica rischia di travolgere qualsiasi fragile foglia di fico sulle tesi del «fronte del Sì» alle riforme governative. A cominciare dallo spauracchio del populismo, agitato per far paura agli elettori. Ma poi, ragiona il grillino Luigi Di Maio, «è stato proprio il premier a trascinare il governo italiano nella campagna elettorale statunitense, sostenendo la candidata sconfitta e rischiando di compromettere i rapporti con il nuovo presidente Usa... Renzi è sempre dalla parte sbagliata della storia». Un sostegno «scomposto e inappropriato», rileva il senatore azzurro Malan.

Ma a portare fin sotto Palazzo Chigi l'attacco sferrato dal «fronte del No» è il capo dei deputati di Forza Italia, Renato Brunetta. Lestissimo nell'intercettare quel che ieri è sembrato essere il nuovo tentativo renziano di «cambiar verso»: un azzardato ribaltamento a proprio vantaggio del traino trumpiano alla consultazione del 4 dicembre, in senso anti-establishment. «Pare che adesso abbia cambiato strategia - spiega Brunetta -: siamo trumpiani anche noi, sostiene Renzi, noi siamo il cambiamento. Chi vota No rappresenta la casta. Roba forte, quasi da ospedale psichiatrico. Sembra un cinepanettone, sono patetici». L'inversione «a U», racconta Brunetta, sarebbe stata consigliata dal celebre Jim Messina, consigliere del Capo a Palazzo Chigi. Destabilizzato anche lui dagli esiti del voto americano, Messina nella notte elettorale è incorso in un paio di gaffe clamorose, avendo dovuto cancellare in fretta due tweet imbarazzanti: uno che già inneggiava alla vittoria ormai certa di Hillary, un altro per i risultati della Florida, da lui considerati «really good» (s'è visto).

Il composito «fronte del No», chiusa la parentesi dei ricorsi di legittimità, non vede l'ora di trovare nel referendum la prima occasione di voto popolare per sfrattare l'«abusivo» di Palazzo Chigi. «Se vince il No subito al voto», insiste il leghista Salvini, felice di stare in piazza «con gente vera e non con quei Vip che, come in Usa con la Clinton, hanno preso un bel pernacchione». C'è poco da fare: a considerare la maggioranza di governo «establishment» è l'intero arco delle forze contrarie a Renzi, dalla Sinistra di D'Attorre al centrodestra di Schifani. E quando la ministra Boschi rivela che il premier è in procinto di inviare una lettera agli italiani all'estero «in contemporanea» alla scheda elettorale (non nella stessa busta), si leva la protesta del centrista Quagliariello che immagina «una missiva non propriamente istituzionale, bensì propagandistica». Con la solita, inquietante confusione di ruoli. D'altronde, scrive Beppe Grillo, «il Pd di democratico ha solo un pezzo del nome: per loro il voto è valido e legittimo solo se conferma quel che vogliono».

Ladri di democrazia, li chiama.

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