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Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere"

Per 17 anni il gip milanese Giuseppe Gennari ha mandato imputati a San Vittore. Ieri per la prima volta lo ha visitato

Il giudice che scopre il carcere: "Condanniamo senza sapere"

Come sono le celle, signor giudice? «Dei buchi maleodoranti di varia umanità accatastata». Per diciassette anni, il giudice Giuseppe Gennari ha riempito di ospiti San Vittore: condanne, ordinanze di custodia, il lavoro consueto di un giudice penale. Ma come è fatta una cella non lo sapeva. Del carcere conosceva solo le salette disadorne degli interrogatori. Del mondo più in là, oltre il quinto cancello, aveva una idea vaga. E come lui non lo sanno le centinaia di magistrati che in Italia applicano la legge penale. Conoscono a memoria i codici e la giurisprudenza. Ma non immaginano quanti passi è lunga una cella.

Ieri mattina, per la prima volta in vita sua, Gennari entra nei raggi di San Vittore. E quando ne esce, dice una cosa semplice: «Bisognerebbe che tutti i miei colleghi vedessero quello che ho visto io. Quando emetti una condanna hai una idea astratta, documentale del carcere. Non hai la percezione di cosa significhi in concreto non solo vivere una restrizione, ma viverla in queste condizioni terribili».

Terzo raggio, quinto, sesto. Il giudice tocca con mano i tentativi di rendere vivibile il carcere, i piani sistemati di fresco, le celle dei lavoranti, la minoranza che almeno può dare un ritmo alle giornate. Ma visita anche i buchi neri. Le celle dove stanno ammassati detenuti al sessantacinque per cento stranieri, protagonisti di un turnover frenetico - tre mesi a testa di permanenza media - che rende arduo qualunque progetto di socialità o di formazione. Il reparto dei «protetti», un carcere dentro il carcere, dove stanno quelli che gli altri detenuti punirebbero: i trans, i violentatori, gli «infami». Incrocia quelli che qui non dovrebbero neanche starci: i malati di mente che la chiusura dei manicomi giudiziari destinava alle residenze assistite, ma le residenze non ci sono per tutti, e così finiscono in prigione. Al giudice appaiono fantasmi raggomitolati sotto le coperte, o in piedi a battersi il petto e a guardare nel vuoto. Alcuni non hanno il materasso, perché lo farebbero a pezzi e lo mangerebbero. «Non ho mai visto scene così neanche nei reparti psichiatrici degli ospedali dove ho pure messo gente agli arresti», dice Gennari.

Mille detenuti, quasi tutti in attesa di giudizio e quindi presunti innocenti: «Ma la presunzione di innocenza - dice Gennari - non vale per tutti allo stesso modo. Per il colletto bianco è un baluardo insuperabile, per il marocchino catturato alla stazione vale zero...». E i marocchini sono qua, insieme ai gambiani, agli albanesi, ai georgiani, in questa babele di lingue dove spesso nessuno li capisce. Dovrebbero pensarci i cosiddetti mediatori culturali, ma arrivano solo due giorni alla settimana e per una manciata di ore: «Il fatto che non ci sia un trait d'union culturale e linguistico - dice il giudice - è inconcepibile, hai gente che magari è sbarcata tre mesi fa e che non ha neppure gli schemi mentali per capire cos'è una regola, cosa ci si aspetta da loro in questo luogo». Per garantire a tutti i tre metri quadri di spazio vitale imposti dalla Corte dei diritti dell'uomo, ora le celle sono aperte 12 ore al giorno. La costrizione fisica si allenta, ma in compenso arrivano i furti, le piccole risse, le tensioni tra etnie e tra singoli. Gennari si muove fra le celle, ascolta le proteste eterne di chi spiega di essere qui da tre settimane senza venire interrogato, sente addosso gli sguardi di chi un magistrato qua dentro non lo aveva mai visto. Fa impressione, vero signor giudice?

«Sì, fa impressione. Anche perché è chiaro che non serve a niente e chi uscirà sarà esattamente come prima. Serve solo a tranquillizzare chi sta fuori: ma è una tranquillità effimera». Se i suoi colleghi lo vedessero condannerebbero meno a cuor leggero? «Vedete, quando facevo il giudice preliminare avevo almeno la percezione che ciò che decidevo accadeva subito: ordinavo un arresto, e una persona finiva in carcere. Invece chi fa le sentenze sa che la sua decisione diventerà definitiva anni dopo, dopo altri gradi di giudizio: questo distacca molto dalla concretezza del verdetto. Ma ogni condanna è un seme gettato, poi tutto va avanti per inerzia. Sì, penso che i miei colleghi dovrebbero vedere. Devi vedere la conseguenza delle tue decisioni.

Poi magari le prendi lo stesso, ma con un'altra consapevolezza».

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