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Un governo mai così debole. Figlio degli errori della May

Campagna disastrosa, l'incarico garantito solo dalle regole. Tra i Tory la fronda per cacciarla in autunno

Un governo mai così debole. Figlio degli errori della May

Il secondo governo May, che sta venendo alla luce per così dire con il forcipe dopo che i conservatori hanno perso la maggioranza assoluta in Parlamento (319 seggi contro i 326 necessari) e per salvarsi hanno dovuto ricorrere all'appoggio esterno (non gratuito) dei 10 Unionisti irlandesi, è sicuramente il più debole degli ultimi decenni. Ha come premier una donna che, nelle ultime settimane, ha sbagliato tutto, prima sciogliendo il Parlamento con tre anni di anticipo nell'illusione di rafforzare la propria maggioranza, poi lanciando (senza consultarsi coi maggiorenti Tory) un manifesto troppo orientato a sinistra nazionalizzazioni, aumento di tasse e spesa sociale che le ha alienato la base conservatrice del partito e infine conducendo una campagna elettorale da molti definita addirittura disastrosa. Se ha ottenuto egualmente dalla regina l'incarico di formare il nuovo esecutivo è solo perché, come leader eletta del suo partito, ne aveva costituzionalmente il diritto. Ma, a parte i capi dell'opposizione che ne hanno subito chiesto le dimissioni, tra gli stessi Tory la fronda che non l'ha mai vista di buon occhio è uscita molto rafforzata dalla elezione e nei corridoi di Westminster si parlava già ieri di promuovere un cambio della guardia in autunno. Il problema è che nel partito non è emersa finora nessuna figura che goda di vasto consenso nel gruppo parlamentare e che, prima di lanciare a Theresa Maybe (come hanno preso a chiamarla i detrattori), una sfida interna simile a quella che un quarto di secolo fa detronizzò Margaret Thatcher a favore di John Major, bisogna mettersi d'accordo su uno. Un altro rimprovero che l'establishment del partito muove alla May nonostante la sua linea dura sulla Brexit, non sia riuscita a recuperare il grosso dei voti dell'Ukip, che dopo avere ottenuto il suo unico obbiettivo si è letteralmente liquefatto. Comunque, per evitare immediate diatribe interne, la May ha deciso di confermare tutti i principali ministri dell'esecutivo uscente: Boris Johnson (forse il suo principale rivale) agli Esteri, Philip Hammond come Cancelliere dello scacchiere, Fallon alla Difesa, Amber Rudd agli Interni e il molto discusso David Davis ai negoziati con la Ue.

La frase: «Il Paese ha bisogno di certezze in un momento difficile della sua storia, e solo noi possiamo darle», pronunciata dalla premier davanti a Downing Street nell'annunciare la formazione di un nuovo governo rischia perciò di passare alla storia quasi come una boutade. Anche l'insolita lentezza nella formazione del gabinetto (che in Gran Bretagna avviene in genere dopo poche ore le elezioni) è un indizio delle difficoltà che la May sta incontrando. E qualcuno ha pensato di introdurre nel vocabolario politico britannico l'espressione italiana di «governo balneare», fin qui sconosciuta. A darle un po' di forza, potrebbe essere a questo punto solo l'intensificazione della lotta contro il terrorismo, anche con l'emanazione di leggi speciali, su cui nella nuova Camera dei Comuni ci dovrebbe essere quasi l'unanimità.

Logica vorrebbe che al malcelato sconforto della May facesse riscontro l'esultanza del suo principale avversario, il laburista di estrema sinistra Jeremy Corbyn, che invece di portare il partito al disastro ha conquistato 21 nuovi seggi e superato di nuovo, dopo tempo, l'asticella del 40% del voto popolare. Quasi tutti pensavano che il suo programma di ultrasinistra, completo di nazionalizzazioni e supertasse per i ricchi, lo rendesse ineleggibile. Invece, mobilitando l'elettorato giovanile di solito propenso all'astensione esortando a votare «per la speranza» è riuscito a consolidare la sua posizione, anche se buona parte del suo gruppo parlamentare, dove figurano ancora molti blariani, sarebbe felice di farlo fuori. Ma l'idea che la regina potesse affidare a Corbyn la formazione di un governo di minoranza appoggiato da scozzesi, gallesi ed eventualmente liberali, più morbido dei conservatori sull'Europa, è subito svanita come neve al sole. Neppure i liberal-democratici, che contavano sulla loro posizione a favore del «remain» per raccogliere un po' di elettori contrari a lasciare l'Europa hanno molta ragione di essere soddisfatti: hanno sì ottenuto tre seggi in più, ma in Parlamento conteranno poco o nulla. Ancora peggio, se vogliamo, è stata la sorte dei separatisti scozzesi, che perdendo 24 seggi (alcuni a favore dei tory, per decenni quasi assenti a nord del vallo di Adriano) vedono forse definitivamente svanire il sogno di un nuovo referendum sull'indipendenza.

Comunque vadano le cose, da questa elezione la scena politica britannica esce stravolta, e qualcuno ha preso a dire che sta diventando simile a quella italiana.

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