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Il Grande Alibi del governo per gestire gli insuccessi

Lega e M5s in sintonia: evocano nemici esterni come i mercati e lamentano la difficoltà di guidare il Paese

Il Grande Alibi del governo per gestire gli insuccessi

C'è un filo invisibile che collega le sortite leghiste, più avvertite, e grilline, più emotive, in quest'estate cadenzata da paure e tragedie: una voglia spasmodica di governare, ma anche la sensazione, o il timore, di non essere all'altezza, di non esser strutturati per far fronte ad una fase complessa e difficile. E assecondando una reazione primitiva dell'animo umano, i protagonisti si sono creati un Grande Alibi, corredato di nemici e vissuto con l'atteggiamento che contraddistingue il fortino assediato: ci si stringe spalla a spalla, dimenticando differenze, perché l'imperativo è resistere. Non è una novità, visto che sui Grandi Alibi sono vissuti i governi del passato e la stessa cosa faranno pure quelli del futuro.

Ha cominciato il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti, all'inizio di questo mese, ipotizzando una tempesta finanziaria con l'intento di far fuori il governo. «Si ripeterà disse calato nei panni della Cassandra quello che avvenne con Berlusconi nel 2011». I nemici, nel lungo elenco, sono tutti all'esterno: dai mercati, ai poteri forti, alle cancellerie, alle istituzioni europee; tutti uniti contro l'esperienza più limpida e più riuscita (secondo i protagonisti) di sovranismo e populismo europeo. Nel tempo, con l'innalzarsi dello spread e con l'avvicinarsi della data in cui il quantitative easing della Bce andrà in soffitta, dietro a Giorgetti è andato Di Maio e, in ultimo, lo stesso Matteo Salvini («vogliono impedire che nei loro Paesi si ripeta l'esperienza del governo del cambiamento»).

Ora è comprensibile che si mettano le mani avanti, è nello spirito di ognuno di noi: se qualcosa va storto è sempre colpa degli altri, lo hanno fatto pure i Benetton. È l'a, b, c del Grande Alibi. Solo che se si evoca un evento, si rischia che si realizzi, che si creino le condizioni per cui accada: chi semina vento dice il proverbio - raccoglie tempesta. E questo tanto più in quella realtà volatile, condizionata dal più piccolo umore e dal più recondito timore, che sono i mercati e la finanza. Non per nulla non c'è nella storia americana un governatore della Federal Reserve statunitense, che non abbia cercato di rassicurare i mercati, di evitare il panico, o altro. Il «new style» del governo del cambiamento, invece, va esattamente in senso opposto. Risultato: a maggio gli investitori stranieri hanno messo sul mercato 34 miliardi di euro di titoli italiani; a giugno altri 38 miliardi; e il fenomeno deve continuare se, dopo le congetture estive sulla tempesta finanziaria, il ministro dell'Economia Tria ha cominciato a corteggiare la Cina per fargli acquistare i nostri titoli, e Paolo Savona, ministro per l'Europa, ha teorizzato l'intervento di qualche fondo russo per correre ai ripari. Ma perché il governo ha lanciato l'allarme in anticipo, correndo il rischio di un effetto «boomerang»? Semplice, perché se quel paventato meccanismo si mettesse in moto, questo governo e questa maggioranza, con tutte le promesse che hanno fatto in campagna elettorale, non sarebbero nelle condizioni di fargli fronte. Appunto, meglio trovare un Grande Alibi e giocare d'attacco e non in difesa.

Naturalmente, se ci si vuole mettere a riparo da critiche, bisogna tirare in ballo anche le istituzioni, denunciare che sono antiquate, dimostrare che nel nostro ordinamento la stanza dei bottoni, in realtà, è senza bottoni. In fondo nella storia della Prima e della Seconda Repubblica, il tema delle riforme istituzionali per evitare fraintendimenti, assolutamente necessarie è servito anche come Grande Alibi per coprire i limiti e le contraddizioni dei vari governi. L'innesto a freddo di Giorgetti del presidenzialismo nel dibattito del governo risponde anche a questa esigenza: è un espediente forte per dimostrare che l'Italia nelle condizioni date, non si può governare. Anche perché il tema è stato introdotto dopo che Davide Casaleggio e lo stesso Giorgetti hanno sentenziato che «il Parlamento non conta più nulla». Se queste sono le premesse si arguisce dove si vuole arrivare: visto che questa maggioranza ha i numeri per poter governare, se non riesce a farlo non può tirare in ballo un'opposizione inerme, ma deve mettere sul banco degli imputati le istituzioni. Il governo del cambiamento, quindi, ripete il canovaccio dei vari Prodi, Berlusconi, D'Alema, financo Renzi, quando si sono trovati in difficoltà. Tutto cambia perché nulla cambi.

O meglio, qualcosa, sotto sotto, sta mutando. La convivenza al governo ha messo in moto un processo di contaminazione tra leghisti e grillini. Chi avrebbe mai potuto immaginare una sortita di Salvini che assecondasse la proposta di Di Maio e di Toninelli di nazionalizzare Autostrade. C'è una nutrita letteratura riconducibile al Carroccio sugli sprechi delle aziende di Stato, a cominciare dalla Rai. Per non parlare dell'appoggio della Lega al decreto Dignità, che ha fatto insorgere gli imprenditori del nord-est. Pezzi d'identità che se ne vanno. Un fenomeno speculare avviene anche in campo grillino: Toninelli ha espresso pieno appoggio alla linea della fermezza di Salvini sugli immigrati a bordo della motovedetta Diciotti, al costo di contrapporsi al compagno di partito Roberto Fico. Tutto sull'altare della difesa del governo. Chi si sente assediato, infatti, privilegia l'unità. E, soprattutto, non vede alternative. Nelle kermesse estive Salvini parla di governo di legislatura: «Arriveremo fino in fondo». Considera il centrodestra, ma anche i grillini: «Non credo che abbiano più senso concetti come destra, sinistra, centro. Né dividersi tra moderati e estremisti. Il vero spartiacque passa tra chi sta con le élites e chi sta con il popolo». Uno sguardo al futuro che lo porta a sognare nel prossimo Parlamento europeo «un gruppo che raccolga tutti quei movimenti populisti e sovranisti che stanno emergendo nei paesi europei». Uno schema, quindi, che non esclude la presenza di grillini e leghisti nello stesso gruppo a Strasburgo. Con un po' di demagogia si può tutto, anche rasentare la comicità: Toninelli che, mentre si atteggia nei selfie in spiaggia, invia una lettera a tutti i presidenti delle regioni, delle province e i sindaci italiani (magari anche loro in mutandoni) per chiedergli un'analisi delle infrastrutture a rischio entro il 30 agosto, diciamoci la verità, fa un po' ridere.

E già, se usi troppa demagogia e perdi pezzi d'identità all'insegna del Grande Alibi, pure nel grande universo sovranista mondiale dalle tante anime, rischi di perderti: pensi di andare verso Trump, ma in realtà fai rotta verso Maduro.

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