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I droni sì, le torture no. "L'ipocrisia di Obama ci espone a un attacco"

L'ex legale della Cia John Rizzo: "I terroristi catturati ci hanno fornito informazioni per prevenire attentati. Ora si spara dal cielo. E i morti non parlano"

Il presidente americano Barack Obama
Il presidente americano Barack Obama

I terroristi vanno semplicemente uccisi o catturati e torturati per strappargli tutte le informazioni utili a salvare altre vite? Il quesito può sembrare tremendo e immorale, ma è brutalmente attuale. Soprattutto alla vigilia di un tredicesimo anniversario dell'11 settembre segnato dalla paura di un nuovo attacco. Soprattutto all'indomani della decapitazione di due cittadini americani che né la Cia, né le Forze Speciali sono riuscite a salvare. A riportare in auge parole come waterboarding e rendition sono le critiche a un'intelligence Usa accusata di non aver previsto l'ascesa dello Stato Islamico. E dietro le critiche si fa strada, negli Stati Uniti, la rivalutazione delle strategie adottate dall'amministrazione George W. Bush a fronte di un diffuso scetticismo nei confronti dei metodi adottati invece da Barack Obama.

Il presidente democratico già all'indomani della sua prima elezione prese nettamente le distanze dalla strategia del predecessore. «Ritengo - disse allora Obama - che il waterbording sia una tortura e che sia stato un errore qualunque siano state le motivazioni legali e razionali». Il primo a riconoscere le inadeguatezze di un'intelligence incapace di prevedere la nascita di un Califfato del terrore tra Irak e Siria è però lo stesso Obama. «Non c'è dubbio che la loro avanzata e i loro movimenti nel corso degli ultimi mesi - ammetteva ai primi d'agosto il presidente - sono stati molto più rapidi di quanto stimato dalla nostra intelligence». Alla base di questa impreparazione non vi sarebbe - secondo i critici dell'amministrazione Obama - solo la scelta di abbandonare l'Irak, ma anche quella di rinunciare agli «interrogatori intensificati» ovvero a vere e proprie tecniche di tortura capaci di far confessare i terroristi costringendoli a rivelare dettagli e connessioni impossibili da ottenere con altri metodi. L'anno scorso l'avvocato John Rizzo, principale consulente legale della Cia dopo l'11 settembre, ricordava in un'intervista a Der Spiegel che la ragione per cui non si oppose all'adozione di tecniche d'interrogatorio molto prossime alla tortura fu la paura di un «nuovo attacco all'America». E soprattutto la paura di privilegiare i propri scrupoli morali a discapito di pratiche forse riprovevoli, ma capaci di salvare la vita di migliaia di americani. «Non avrei mai potuto convivere con l'idea che ...(dopo un nuovo attentato)... potesse saltar fuori che la Cia aveva preso in considerazione queste tecniche, ma io le avevo bloccate perché ritenevo troppo rischioso adottarle».

Alle certezze di Rizzo si contrappongono le analisi degli esperti d'intelligence che sottolineano da anni l'inaffidabilità delle confessioni estorte con la violenza per la tendenza di chi le subisce a soddisfare aspettative e richieste degli aguzzini. John Rizzo risponde ricordando, però, i successi ottenuti dopo l'11 settembre. «Grazie a quel programma - sostiene l'avvocato della Cia - non c'è stato un secondo attacco sul suolo americano e Bin Laden è stato ucciso. Stando comodamente seduti qui, tanti anni dopo, è troppo facile dire che lo si poteva ottenere anche senza ricorrere a quelle tecniche d'interrogatorio e senza il danno d'immagine pagato dagli Stati Uniti».

Proprio l'eccessiva considerazione per l'immagine esteriore e la maniacale attenzione ai canoni del «politicamente corretto» avrebbero spinto l'amministrazione Obama, secondo i suoi detrattori, ad adottare strategie non solo inefficaci dal punto di vista dei risultati, ma anche intrinsecamente immorale quanto le tecniche dell'era Bush. Al centro di questo dibattito c'è anche stavolta l'opzione «droni», ovvero la decisione di trasformare gli aerei senza pilota della Cia nella principale arma anti-terrorismo. Mentre il 71 per cento degli americani accetta senza problemi le 2500 vittime, tra terroristi e perdite collaterali, causate dai droni soltanto in Pakistan, gran parte dell'America continua a provare un senso di auto-riprovazione per le uscite da Abu Ghraib o Guantanamo. «Questo perché l'immagine di un veicolo incenerito o di una casa distrutta non è sufficiente a farci realizzare - spiega Abu Bruce Hoffman, direttore del Centro per gli studi sulla Sicurezza dell'Università di Georgetown - che quella cosa capita a un esser umano come noi. In questi casi - spiega ancora Hoffman - non disponiamo degli stessi dettagli fornitici dagli articoli che ci spiegano con dovizia di particolari come Khalid Sheikh Mohammed, la mente dell'11 settembre, abbia subito il waterboarding per 183 volte di fila». Con una differenza. I terroristi uccisi dai droni non parlano.

Khalid Sheik Mohammed, invece, contribuì con le sue rivelazioni alla sconfitta di Al Qaida e - nel lungo termine - all'uccisione di Bin Laden.

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