Politica

I mercati hanno già capito che Donald non è il nemico

Al Tesoro un uomo di Wall Street e Yellen resta alla Fed Paga il conto la Silicon Valley. Si infiammano i bond

Rodolfo Parietti

Ma siamo poi sicuri che Trump sia davvero una sorta di icona pop, così prossima a quella working class bianca che l'ha votato e così distante da Wall Street? A giudicare dal comportamento dei mercati nelle due sedute successive al voto qualche dubbio è lecito. «Donald uno di noi», è il coro ideale che sembra levarsi dalle Borse mano a mano che le parole rodomontesche da comizio, quelle da durlindana sguainata contro islamici e immigrati, vengono stemperate con toni da embrassons-nous, da statista trasversale. E poi, soprattutto, i mercati cominciano a sentir profumo di gente familiare, come quel Steven Mnuchin, ex Goldman Sachs, destinato al ministero del Tesoro. In alternativa, un altro pezzo da novanta, l'ad di JPMorgan, Jamie Dimon. Insomma: business as usual, versione anglosassone del gattopardesco tutto cambi perché nulla cambi.

Eppure, qualche elemento - e non marginale - di discontinuità già si vede nei rendimenti dei titoli di Stato, tutti protesi verso l'alto, e nella contestuale discesa dei loro prezzi. Dai Treasury Usa al Bund tedesco uscito dal freezer (su livelli che non si vedevano da sei mesi) fino ai nostri Btp, con il decennale che punta verso il 2%, è in atto un'inversione di rotta. Forse apprezzata dalla Bce, a caccia di titoli acquistabili, ma poco gradita alle casse pubbliche italiane. Tutto è legato alle attese di una ripresa dell'inflazione, che già c'erano alla vigilia del voto Usa e che l'affermazione del tycoon ha ulteriormente alimentato. Per sostenere la ripresa Trump punta infatti su tagli delle imposte a persone e aziende, alla deregolamentazione e su una politica di deficit spending, cioè in disavanzo, destinata anche al rilancio infrastrutturale. Sarà finanziata, verosimilmente, facendo leva su due fronti. Il primo è un aumento dell'offerta di bond. Eventuali rialzi del costo del denaro da parte della Fed, ora che Janet Yellen ha incassato la conferma da parte del presidente eletto, avranno inoltre un effetto automatico di rialzo sui rendimenti che i titoli delle utility e delle tlc stanno già scontando.

Il secondo riguarda lo scudo fiscale con cui Trump conta di ottenere il rimpatrio di miliardi di dollari di quella liquidità che le grandi corporation a stelle e strisce hanno messo in cassaforte oltre confine per sfuggire al fisco Usa. Non è un caso che ieri, mentre il Dow Jones viaggiava a ritmi da record dopo la chiusura alla camomilla dell'Europa (invariata Milano), il Nasdaq, la cartina di tornasole della salute del comparto hi-tech, sia finito in territorio negativo (-0,3% alle ore 20 in Italia) sotto il peso di ribassi anche superiori al 2% subìti da titoli come Facebook, Apple, Netflix e Google. Ovvero, i colossi della Silicon Valley che, baluardi della cultura liberal, avevano appoggiato la candidatura di Hillary Clinton. Il problema non sono però certo le divergenze ideologiche, bensì la lotta preannunciata da Trump alle delocalizzazioni, sia quelle di natura fiscale (problema che riguarda da vicino la Mela morsicata), sia quelle produttive. Inoltre, una stretta sull'immigrazione potrebbe ridurre l'afflusso di ingegneri informatici di talento dal resto del mondo alla California.

Ma i mercati non disperano che tutto si possa aggiustare. Anche quell'accordo commerciale come il Nafta che il Canada si è detto pronto a rivedere e che il Messico punta a modernizzare. E se il Fondo monetario ha per ora sospeso il suo giudizio, Standard&Poor's, confermando all'America il rating Aa+ con outlook stabile, ha di fatto già promosso Trump.

Come i mercati.

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